Chiunque detenga un reperto mai denunciato, potrà ottenere il deposito per tent’anni. La sanatoria prevede un pagamento di un terzo del valore presunto. Un provvedimento più volte proposto, e sempre subissato dalle proteste delle associazioni che tutelano il patrimonio artistico. Più volte proposto, altrettante volte ricacciato indietro, subissato dalle proteste di tutte le associazioni che tutelano il patrimonio artistico, torna l’archeocondono, la norma che depenalizza il possesso illecito di un bene archeologico in cambio di una modesta multa. Al momento circolano almeno due bozze di un articolo diviso in 11 commi intitolato “Disposizioni in materia di emersione e catalogazione di beni archeologici, nonché revisione delle sanzioni penali”, entrambe maturate in ambienti parlamentari del Pdl.
Modifiche sono ancora possibili, ma un punto in comune le varie versioni dell’articolo ce l’hanno: finire dentro la manovra finanziaria (all’interno del maxi emendamento con le modifiche che il governo presenterà) e giungere in porto blindate e sicure. In sostanza chiunque detenga un reperto mai denunciato, in Italia o all’estero, e dunque in violazione della legge, può ottenere dallo Stato una “concessione in deposito” della durata di trent’anni, rinnovabili, e può anche trasferirlo in eredità. Il tutto dichiarando il possesso e pagando una somma che si aggira intorno a un terzo del valore di quel bene.
Non è la prima volta, dunque, che si attenta a uno dei pilastri della tutela in Italia, introdotto dalla legge del 1909 e poi sempre confermato, quello per cui solo lo Stato può fare o autorizzare scavi e tutto ciò che viene rinvenuto è di sua proprietà. Qualcosa di diverso c’è, però, fra queste proposte di sanatoria e le precedenti. In quelle era previsto che si diventasse proprietari del bene. Stavolta si parla di un deposito (anche se non viene esplicitamente vietata la vendita). E poi più alta è la multa: nel 2004 si tentò di far passare un emendamento alla Finanziaria, firmato da Gabriella Carlucci e da altri suoi colleghi, che fissava il pagamento al 5 per cento del valore. Adesso, inoltre, si aggiunge che la Soprintendenza può contestare la valutazione fatta e chiedere un’integrazione.
Ma la sostanza è chiara, stavolta come allora. Il fine, dichiarano i proponenti, è quello di far emergere un patrimonio sommerso e di consentirne la catalogazione. Eppure il punto cruciale è un altro: in cambio di pochi spiccioli, che poco ristoro potrebbero portare al bilancio dello Stato e persino alle esangui casse dei Beni culturali, tutti quelli che possedevano al 31 dicembre 2009 un bucchero etrusco o un’anfora greca, recuperati chissà come, non saranno più punibili.
Anche se hanno violato l’articolo 712 del codice penale, che persegue chi ha acquistato oggetti di dubbia provenienza. “Ottime notizie per tombaroli, depredatori e trafficanti di antichità, collezionisti finti e mercanti disonesti”, scrisse su queste pagine Salvatore Settis quando venne presentato l’emendamento Carlucci. “Dopo aver mortificato il settore dei beni culturali in ogni modo e aver messo sul lastrico la cultura italiana, ora il ministro tenta di far cassa, letteralmente raschiando il barile”, sostiene l’ex ministro Giovanna Melandri. E conclude: “Come dice un vecchio proverbio: al peggio non c’è mai fine”.
La Repubblica 29.06.10