Sono giorni decisivi per la manovra del ministro Tremonti. Quello che si sta decidendo, infatti, è su quali enti dovranno gravare gli ingenti tagli di spesa che la manovra prevede per i prossimi due anni: 8 miliardi nel 2011, 15 miliardi nel 2012. Nessuno, fra i rappresentanti di Stato, Regioni, Enti locali (Province e Comuni) mette in discussione l’entità complessiva dei tagli, pari a 23 miliardi in due anni, ma un po’ tutti sottolineano che i sacrifici richiesti al proprio comparto sono eccessivi. Soprattutto gli enti territoriali, ossia Regioni, Province e Comuni, hanno espresso il loro disappunto. Non senza ragione, a mio parere: le spese di tali enti assorbono circa 1/3 della spesa pubblica corrente, mentre la manovra chiede loro di sostenere ben 2/3 dei sacrifici.
Per contro le Amministrazioni centrali, essenzialmente lo Stato e gli Enti di previdenza, contribuiscono per circa 2/3 alla spesa complessiva, ma sono chiamate a sopportare solo 1/3 dei sacrifici. A questo motivo di disappunto se ne aggiunge un altro, e cioè che quando si parla di sprechi sembra che essi siano un’esclusiva degli Enti territoriali, mentre le analisi empiriche mostrano che anche gli Enti centrali fanno la loro parte: scuola, università, giustizia, sistema penitenziario, false pensioni di invalidità, solo per citare i casi più studiati, contribuiscono non poco alla dissipazione di risorse pubbliche.
Eppure il dibattito sui media si focalizza sulla mala gestione della sanità e sulle spese pazze delle Regioni, come se il tasso di spreco delle Amministrazioni centrali fosse limitato ai privilegi della politica, che in realtà incidono assai poco sul volume complessivo degli sprechi (non più del 2%, secondo una mia valutazione di larga massima).
Fino a qualche giorno fa gli Enti territoriali, e in particolare le Regioni, hanno fatto fronte comune contro il governo, cercando di ottenere uno sconto. Ultimamente, tuttavia, allo scontento anti-centralistico, che unisce tutti i governi locali, se ne sono aggiunti altri due, che tendono a rompere il fronte delle Regioni. Il primo è lo scontento delle Regioni (relativamente) virtuose governate dalla Lega, ossia Piemonte e Veneto, che con i loro governatori hanno chiesto di tener conto della sostenibilità dei sacrifici: a chi ha già molto tagliato, perché ha razionalizzato la spesa, si dovrebbero chiedere sacrifici minori, proprio perché i suoi margini di ulteriore miglioramento sono ridotti. Il secondo è lo scontento di cinque Regioni in deficit, tutte governate dal centro-destra: Lazio, Campania, Calabria, Abruzzo, Molise. Secondo i loro governatori, il ministro Tremonti dovrebbe tenere conto del fatto che il deficit non è stato prodotto dagli attuali governatori, appena eletti, ma dai loro predecessori, per lo più appartenenti al centro-sinistra. Detto in altre parole, la manovra dovrebbe tenere conto dello «svantaggio» di chi ha enormi deficit da ripianare e già si sta dando molto da fare per rimettere i conti in ordine.
Ed ecco il risultato paradossale: il ministro Tremonti si trova a dover fronteggiare due argomentazioni speculari, per cui sia la virtù che il vizio vengono usati come motivi per ottenere sconti sulla manovra. I governatori di alcune Regioni virtuose del Nord chiedono di fare meno sacrifici perché li hanno già fatti, quelli di alcune Regioni viziose del Centro-Sud chiedono di farne di meno perché – non avendoli fatti prima – dovranno farne troppi in futuro. Il tutto aggravato dal fatto che i dati e le stime sui costi standard, ossia su quanto è ragionevole che ogni Regione spenda, non sono ancora noti. È possibile che Tremonti se la cavi dicendo: avete visto che, alla fine, i tagli lineari (ossia eguali per tutti) sono l’unica cosa ragionevole. O che Calderoli ripeta quel che, pilatescamente, ha già detto alle Regioni: i risparmi sono questi, se ci riuscite decidete voi un modo equo di ripartirli fra voi stessi.
Se le cose andassero così, sarebbe un ulteriore colpo alla credibilità del federalismo fiscale. È vero che i conti territoriali esatti non ci sono ancora, ed è certamente una grave responsabilità di questo governo aver messo il carro davanti ai buoi, votando una legge sul federalismo fiscale (la legge 42 del 2009) prima che fosse pronta la base informativa necessaria per farla funzionare. E tuttavia, se si parla di conti delle Regioni, l’ordine di grandezza degli sprechi si conosce più che bene: ci sono innumerevoli ricerche che li quantificano, e se proprio non ci si fida dei lavori dei centri-studi ci sono i dati impietosi dei deficit sanitari, di cui è provato che sono strettamente legati all’entità degli sprechi. Se si vuole, quei dati possono benissimo essere usati per modulare i sacrifici richiesti, esigendo di più da chi è male organizzato e proprio per questo ha maggiori possibilità di riorganizzarsi in modo più efficiente. Decidano i governatori delle Regioni in dissesto se i tagli che devono fare preferiscono cominciare a farli davvero, o preferiscono scaricarli – sotto forma di maggiori tasse – sui cittadini che li hanno eletti. Ma non si sottraggano alle loro responsabilità dando la colpa ai predecessori: i dissesti erano noti, ed è anche per ripianarli che i governatori neoeletti hanno chiesto il voto ai rispettivi elettori. E tantomeno chiedano allo Stato di ripianare, concedere fondi Fas, soprassedere, dilazionare. Perché i costi che i governatori delle Regioni in dissesto cercano oggi di evitare li pagherebbero domani i contribuenti, a partire da quelli delle grandi Regioni virtuose del Centro-Nord, che non hanno alcuna responsabilità (ma solo svantaggi) per anni e anni di espansione incontrollata dell’occupazione e della spesa nei territori peggio amministrati.
Ci sono due cose, tuttavia, che i governatori delle Regioni, specie di quelle fin qui mal amministrate, possono ragionevolmente chiedere: la caduta dei vincoli di destinazione dei vari fondi, nonché maggiori poteri per riorganizzare l’erogazione dei servizi pubblici. Perché su un punto i timori dei governatori, di tutti i governatori, sono perfettamente giustificati: per ridurre i costi dei servizi pubblici bisogna aumentare l’efficienza, ma per aumentare l’efficienza è inevitabile ristrutturare, un’operazione che oggi è resa impervia non solo dalla mancanza di analisi organizzative dettagliate ma anche dai mille espedienti che ogni organizzazione complessa, specie se fa parte della Pubblica Amministrazione, può mettere in campo per resistere al cambiamento.
La Stampa 29.06.10