È il primo “salto” dei ricercatori, quello cruciale per dare l’abbrivio alle retribuzioni in cattedra, a essere il più colpito dalle misure congela-stipendi previste anche per le università dalla manovra correttiva.
Professori e ricercatori, come magistrati, diplomatici e alti gradi militari, non hanno una storia retributiva disciplinata dai contratti, ma dagli incrementi automatici, ed è lì che nel loro caso si concentra l’ondata di gelo imposta dalla manovra. I grandi lavori sui correttivi sono già iniziati, ma l’ultima parola la dirà in settimana il maxiemendamento governativo: se le carte non cambieranno, i docenti dovranno dire addio per i prossimi tre anni alle due gambe degli aumenti in busta, cioè gli incrementi automatici annuali ancorati alle dinamiche salariali del pubblico impiego e gli scatti (altrettanto automatici, in attesa di una rivoluzione meritocratica che tarda ad arrivare) che ogni due anni fanno salire il professore di un piano nel grattacielo della busta paga.
La tagliola è uguale per tutti, ma gli effetti sono variegati perché cambiano per ognuna delle 52 posizioni stipendiali in cui si articolano le entrate degli oltre 60mila docenti universitari italiani. Il sistema è bizantino è irrazionale in sé – consente anche di raddoppiare lo stipendio senza passaggi di ruolo – e non è semplice trovare una regola in grado di sposare l’esigenza dei sacrifici con un minimo di progressività nelle richieste; fatto sta, però, che lo stop generalizzato finisce per colpire con più durezza proprio gli stipendi più leggeri.
In termini percentuali, il dazio più pesante è a carico dei ricercatori esordienti, che debuttano fra i docenti con un netto da 1.200 euro al mese. Chi ha iniziato la carriera l’anno scorso, oltre agli incrementi Istat deve rinunciare agli scatti del 2011 e del 2013, con una stretta che si porta via 7.659 euro all’anno in termini di mancati aumenti: in pratica, la rinuncia vale il 32,7% dello stipendio annuale.
Più alta in valore assoluto, ma un po’ più “leggera” in termini relativi, è la cura che si prospetta per i ricercatori non confermati che hanno già all’attivo due scatti stipendiali, e che nei prossimi tre anni si vedono congelati aumenti per più di 8mila euro l’anno, cioè il 27,6% della loro busta paga che oggi al netto viaggia intorno ai 1.530 euro al mese.
La tabella in pagina fa i conti in tasca a tutti i docenti italiani, calcolando per ogni fascia stipendiale quanto vale l’austerità in busta paga imposta dalla manovra per salvare i conti pubblici (e in particolare quelli delle università, che senza correttivi l’anno prossimo dedicherebbero al personale quasi 7 miliardi di euro, cioè più di quanto potranno ricevere dallo stato).
L’incremento automatico è quello legato al resto del pubblico impiego, ed è calcolato in base all’Ipca, cioè il nuovo indice che dall’anno prossimo avrebbe dovuto accompagnare l’esordio degli accordi triennali sul modello del lavoro privato. Gli scatti sono invece rappresentati dagli importi che separano tra loro le fasce stipendiali, e oscillano fra un minimo e un massimo perché il risultato dipende dalla situazione del singolo docente. Chi ha avuto l’ultimo scatto nel 2009 se ne vedrà bloccare due, quello del 2011 e quello del 2013, mentre chi ha visto la busta paga aumentare quest’anno dovrà rinunciare solo a quello in calendario per il 2012.
Il caso, insomma, domina una buona fetta delle sorti degli stipendi in cattedra, ma nel caleidoscopio delle somme in gioco si fa largo una regola generale: in ognuno dei ruoli dei docenti confermati, che sono l’ampia maggioranza (sono quelli che hanno già passato qualche anno all’interno del loro ruolo), l’impatto percentuale della manovra scende al crescere dell’anzianità, e quindi dello stipendio.
Un ordinario appena dopo la conferma, per esempio, guadagna 58mila euro lordi l’anno e deve rinunciare ad aumenti fino al 18,9%, mentre per chi ha un’anzianità elevata e guadagna fino a 106mila euro l’anno la stretta non supera in nessun caso il 10% (la fascia più alta, ovviamente, non ha scatti ulteriori, quindi subisce nella manovra un impatto più morbido). Questa progressività al contrario non viene cancellata nemmeno dal «taglia-manager», che sforbicia del 5% le quote degli stipendi pubblici che superano i 90mila euro e del 10% quelle che vanno oltre i 150mila. Nelle università entra in azione in genere solo la prima di queste tagliole, e solo per gli ordinari più anziani, e le cifre in gioco sono leggere: un cattedratico al vertice dell’anzianità, che senza avere incarichi ulteriori (per esempio preside di facoltà o rettore) sfiora i 110mila euro all’anno, in 12 mesi paga a questa misura 992 euro lordi.
Il Sole 24 Ore 28.06.10