Facciamo un quiz. Trovatemi un altro paese democratico nel quale un partito di governo abbia organizzato una fiaccolata per contestare (ancor prima del relativo giudizio) l’applicazione corretta della legge elettorale da parte della magistratura. Oppure uno Stato, che non sia ben inteso qualche remota repubblica delle banane, nel quale un tale, essendo indagato, sia stato nominato a tambur battente ministro unicamente per consentirgli di sfuggire ai suoi giudici.
Difficile trovarlo, vero? Viviamo in Italia una inesorabile deriva delle regole base che presiedono alle democrazie moderne. Queste regole vivono, in genere, del tacito patto tra gli attori del gioco politico, secondo il quale esse valgono sempre e comunque, indipendentemente dal fatto che possano di volta in volta svantaggiare l’uno o l’altro dei contendenti. Sono regole, appunto: cioè sono caratterizzate da un alto tasso di rigore formale, da un elevato grado di astrattezza e di neutralità, da una tassatività assoluta, che non consente eccezioni nella loro applicazione.
Come ci ha insegnato la scienza politica, la democrazia vive di regole: sicché se una Corte dice che il voto della Florida per Bush è valido anche quando si abbiano fondati motivi per ritenere il contrario, un minuto dopo Al Gore dichiara di volersi attenere senza riserve alla decisione di quella Corte.
A nessuno, in un Paese di media tenuta democratica, verrebbe in mente di nominare ministro un inquisito col solo scopo di offrirgli lo scudo anti-giudici messo a punto per il presidente del Consiglio. E d’altra parte nessun Paese democratico consentirebbe l’esistenza stessa di un simile scudo.
Cose banali, che mai solo qualche anno fa ci saremmo immaginati di dover ribadire.
Siamo infatti di fronte ad un sovversivismo inedito delle classi dirigenti, cioè alla teoria dell’irresponsabilità del potere e di chi lo esercita, all’ideologia manifesta della violazione sistematica e se possibile della soppressione delle regole.
Le regole – si dice (lo si è detto nel caso recente del Lazio) – debbono soggiacere alla volontà degli elettori. Le regole – dice il neopresidente del Piemonte Cota – non contano: facciamo la fiaccolata e tutto va al suo posto. Le regole – ci fa sapere il neoministro Brancher – possono tranquillamente essere mandate al diavolo, se si tratta di salvare dal giudizio qualcuno di lorsignori: esiste il diritto dei più forti, chi se ne frega della legge. Salvo poi rassegnarsi, come ha dovuto fare ieri a tarda sera, passando così da un improbabile “legittimo impedimento” a un più che legittimo, anzi doveroso, pentimento.
Spira sulle regole un vento di insofferenza: inutili, formalistiche, burocratiche, ritardanti, cervellotiche. Palla al piede del Paese reale. Lo dice Berlusconi, lo ripetono i fedeli amplificatori del verbo. Lo dice persino, ogni tanto, Confindustria. Su questo preparano quelle che chiamano le riforme istituzionali.
Lentamente, gradualmente, ci conducono verso un paese di Bengodi senza più regole. Loro la chiamano libertà. Non sanno, o non vogliono dirci che la democrazia moderna, tolte le regole, non è più democrazia.
da L’Unità