D’un tratto, come se la crisi economica cominciata nel 2007 non fosse passata da queste parti, è riapparsa nei vocabolari un’espressione molto usata negli Anni 80: «Non c’è alternativa». L’acronimo inglese, Tina (There is no alternative), caratterizzò i governi di Margaret Thatcher, e la fiducia che a quei tempi si nutriva nelle virtù indiscutibilmente razionali delle forze di mercato. Queste ultime non andavano regolate: si regolavano da sole, a condizione di esser lasciate senza briglie. Il dogma del mercato mise a tacere dissensi e recriminazioni spesso irragionevoli, ma finì col congelare il pensiero e le sue risorse multiformi. Il fallimento del comunismo accentuò questi vizi di immobilità, perché ogni idea diversa era considerata a questo punto una messa in questione radicale dell’economia di mercato. La stessa parola alternativa era in anticipo screditata, proscritta. Chi aveva l’ardire di pensare o immaginare alternative era accusato di avvelenare e addirittura sovvertire il grande idolo dei fondamentalisti che era il tempo presente.
La fiducia nel dogma ha trovato nel 2007 la pietra su cui è inciampata, e cadendo ha trascinato con sé le sicurezze che credeva di possedere, compresa la sicurezza che le forze di mercato non avessero mai bisogno di briglie politiche. Quel che è mancato e che manca, tuttavia, è un ricominciamento del pensare: troppo a lungo congelata, la mente avanza ancora a tastoni e nel buio acchiappa con le mani le parole che trova, senza sapere se appartengano al mondo nuovo o al vecchio.
Tra queste parole c’è l’acronimo della Thatcher, riutilizzato da governi, imprenditori ed economisti nelle più svariate occasioni: nel caso di Pomigliano, come nelle discussioni sui piani di rigore che i Paesi industriali si apprestano a varare. Non vengono riutilizzate senza ragione, perché non poche misure e decisioni sono obbligate, difficilmente confutabili: è vero, ad esempio, che in un’economia internazionalizzata si possono produrre automobili solo in fabbriche dove i costi di lavoro siano abbastanza bassi e la produttività abbastanza alta da poter competere con le produzioni in Europa orientale o Asia. Da questo punto di vista non c’è alternativa, in effetti. Se si vogliono fabbricare automobili in Italia o in Francia o in Germania, bisogna per forza adottare nuove condizioni di lavoro: grosso modo, quelle indicate dal piano Marchionne.
Essendo un momento di verità, la crisi consiglia tuttavia prudenza, quando si esprimono certezze razionali così granitiche, impermeabili alle controversie e alle alternative. Soprattutto, essa insegna ad aguzzare lo sguardo, e anche ad allungarlo e differenziarlo. Una cosa che è senza alternativa nel breve termine, può rivelarsi del tutto sterile e più che bisognosa di alternative se esaminata con lo sguardo, molto più lungo, delle generazioni che verranno e di quelli che saranno i loro bisogni, le loro domande, i loro stili di vita. Una produzione che sembra oggi vitale e prioritaria può essere, nel lungo termine, non così centrale come lo è stato fino a oggi.
È questo il momento in cui il dogma del mercato tende a divenire l’ortodossia del tempo presente, dell’hic et nunc. L’automobile è un prodotto essenziale della nostra esistenza, oggi. Ma non è detto che lo sarà sempre allo stesso modo, che i modi di vita e le abitudini degli uomini non subiranno metamorfosi anche profonde. Il clima che si degrada rapidamente, il costo del petrolio, la scarsità delle risorse: tutti questi elementi non garantiscono all’automobile il posto cruciale che ha avuto per gran parte del ’900, e non saranno gli aumenti della produttività e le più severe condizioni di lavoro in fabbrica a migliorarne le sorti. Un’auto resta un’auto, anche se consumerà meno energia, e sulla terra ce ne sono troppe. Nell’immediato non c’è alternativa a costruire auto in un certo modo a Pomigliano. Nel medio-lungo periodo l’enorme numero di veicoli programmati non troverà forse acquirenti.
Gli studiosi dibattono la questione da anni. Lo stesso Sergio Marchionne ha più volte fatto capire, in passato, che la domanda di automobili sta declinando in maniera strutturale, indipendentemente dalle crisi congiunturali. Già si studiano possibili riconversioni, alternative, che vanno ben al di là delle automobili a basso consumo. I piani alternativi non mancano e tutti raccomandano di investire nei trasporti comuni più che nell’auto individuale, nelle rotaie più che in ragnatele sempre più invasive di strade asfaltate, nei motori destinati a produrre energie alternative più che in motori che dilapidano risorse in diminuzione al servizio del singolo individuo. «I trasporti pubblici e le energie rinnovabili saranno il fulcro industriale della prossima generazione nell’economia globale», afferma Robert Pollin, economista all’università del Massachusetts. Secondo alcuni autori (James Kunstler è il più pessimista, nel suo libro intitolato The Long Emergency) il declino dell’auto diverrà visibile quando non sarà più conveniente costruire, in epoca di petrolio raro e caro, le città satelliti lontane dai centri-città e dai luoghi di lavoro (i suburbia).
Il modo di vita e di convivenza dei terrestri è in mutazione: a causa del clima, del diradarsi di risorse del pianeta, di catastrofi come quella nel Golfo del Messico. Muteranno bisogni, aspirazioni, influenzando sempre più i mercati. È una prospettiva alla quale conviene pensare, fin d’ora, cominciando a costruire le fabbriche e i lavori che saranno necessari nel mondo futuro. Anche mondo futuro è un concetto in metamorfosi costante: non è qualcosa che ideologicamente viene sovrapposto alla realtà, sostituendola alla maniera di un villaggio Potemkin che prima inganna e poi delude. È una realtà che molto semplicemente succederà, e sulla quale tuttavia potremo incidere con una condotta o con l’altra. L’unico vero problema è che le forze che saranno protagoniste di nuovi stili di vita e nuovi consumi esistono in maniera flebile, non dispongono di lobby per far ascoltare la propria voce, non hanno possenti rappresentanze. Non l’hanno soprattutto nei sindacati e nei partiti di sinistra, il più delle volte sordi alle esigenze di chi non ha il posto fisso, di chi vive in condizioni di mobilità continua, di chi non è protetto da reti di sicurezza ed è già attore di nuovi stili di vita e di consumi. Ma c’è arretratezza anche nel mondo degli imprenditori, dove a dominare sono spesso forze gelose del posto occupato dalle produzioni classiche: forze timorose del futuro, e delle conversioni mentali e produttive che il futuro comporta.
Vale la pena dunque pensare le alternative, e abbandonare le parole-mantra di Margaret Thatcher. E vale la pena pensare il mondo contraddittoriamente, tenendo sempre presenti i due sentieri che abbiamo davanti. Il sentiero del qui e ora, con i suoi stati di necessità non eludibili. E il sentiero del domani e dopodomani, con i suoi non meno eludibili vincoli energetici e climatici. Può darsi che nell’immediato sia corretto ricordare che non esistono alternative. Ma di alternative c’è un enorme bisogno per il futuro, ed è un bene che vengano pensate, vagliate, scartate, non domani ma già oggi.
La Stampa 27.06.10