L´Aquila, con il disagio e la protesta dei suoi cittadini, ci parla in molti modi dell´Italia. Ci ripropone la sensazione che sempre avvertiamo dopo la catastrofe, materiale e culturale, di un terremoto: la sensazione cioè che ogni volta sia la nazione nel suo insieme a doversi rialzare, a dover ritrovare ragioni e speranze per il proprio futuro. Lo avvertivo nel 1976 friulano, nei luoghi in cui sono cresciuto, e lo avverto ora nell´ Abruzzo in cui insegno da molti anni. L´Aquila ci parla anche di un paese incapace di far tesoro delle esperienze del passato. E ci costringe a interrogarci sul nostro presente: è la storia d´Italia che ci viene incontro quando ricordiamo la valanga d´acqua del Vajont, il 1968 del Belice, il 1976 del Friuli, il 1980 della Campania o l´Abruzzo di oggi.
Si pensi al Vajont del 1963, che mostrava all´Italia del “miracolo economico” la tenace sopravvivenza di una povertà arcaica, di donne vestite di nero, di gerle che portavano in salvo i residui di una miseria antica. E si pensi all´inadeguato esito del processo ai responsabili, frutto di una giustizia ancora debole e incerta di fronte ai potenti. La prima fotografia scattata a L´Aquila che ricordo d´aver visto è della fine degli anni Sessanta, la pubblicarono tutti i giornali: ritraeva le donne del Vajont scese in Abruzzo per assistere a quel processo.
Vi è poi il 1968 del Belice, che è anche l´anno di Avola, nella stessa Sicilia: un´Italia in cui i braccianti potevano ancora morire sotto il piombo della polizia battendosi per diritti elementari. In quell´anno una giovane generazione iniziò a chiedere l´”impossibile”: si dimostrò impossibile anche dare risposte adeguate a quei diritti e a quei bisogni. E il Belice divenne il simbolo di un amarissimo, doloroso e umiliante fallimento nazionale.
Si pensi anche al 1976 del Friuli, molto evocato ma poco conosciuto nella sua articolata realtà. Ci racconta molte cose, quel Friuli. Ci parla in primo luogo del clima del tempo, di una “democrazia dal basso” che si sviluppò prepotentemente in un Paese segnato da una grande sensibilità civile e da una forte speranza di cambiamento, presto delusa. Ci parla del concreto operare di persone e di istituzioni, di legislatori nazionali e di amministratori locali, a contatto diretto – non senza conflitti, talora – con gli amministrati, con i paesi e le culture ferite dal trauma. E ci parla anche del prezioso ruolo svolto allora dalla Chiesa friulana, dai suoi sacerdoti e dal suo vescovo. Un momento irripetibile, forse, e quattro anni dopo l´Irpinia sembrò collocarsi in un´altra epoca. Illuminò di luce cruda i mutamenti in corso sia nel Paese che nel Palazzo. In un primo momento i ruoli sembrarono quasi rovesciarsi: poche ore dopo il sisma è Sandro Pertini, Presidente della Repubblica, a irrompere dal video nelle case degli italiani e a denunciare i rischi di un “altro Belice”. A chiamare in causa responsabilità di singoli e di parti politiche. Quelle immagini televisive ci appaiono oggi la nobile e terribile testimonianza di un´impotenza. A nulla varrà quell´irrituale appello, che attirò al Presidente anche veementi critiche. In Irpinia fu molto peggio che nel Belice. La ricostruzione delle aree colpite – e di quelle non colpite, poiché l´area si dilatò a dismisura e lo sperpero si protrasse nel nulla – moltiplicò inefficienze, corruzione, sprechi, dilapidazioni di denaro pubblico. Alimentò o consolidò intrecci perversi fra poteri legali e illegali. E la grande solidarietà per l´Irpinia fu l´ultimo grande momento di mobilitazione nazionale per il Sud, prima dell´innescarsi di derive e umori che la Lega porterà agli estremi: nei primi anni Ottanta deliranti scritte antimeridionali inizieranno a comparire sui cavalcavia veneti o sui muri lombardi.
Che Paese ci ha mostrato, infine, il dramma di oggi, il dramma dell´Abruzzo? In primo luogo un Paese irresponsabilmente smemorato: il decisionismo di vertice e l´esautorazione della popolazione che sono state imposte a L´Aquila sono l´esatto contrario di quell´intreccio fra partecipazione e decentramento che fu la chiave vera della rinascita friulana (e contraddicono anche la positiva esperienza delle Marche e dell´Umbria, nel 1997). Hanno sottratto alla discussione e alla decisione della comunità colpita e dell´intero Paese non solo le misure della primissima fase ma anche quelle riguardanti il futuro della città, ancora circondato da un´incertezza e da un´opacità che alimentano la sfiducia, se non lo sconforto. Negli ultimi anni, inoltre, l´azione generale della Protezione civile ha assunto progressivamente al proprio interno il perverso meccanismo che è stato alla base del disastro campano: l´estensione delle regole dell´emergenza – con l´indebolimento di controlli e vincoli – ad eventi che non hanno alcun rapporto con essa (con le conseguenze rivelate dalle intercettazioni telefoniche, che il governo vuole appunto abolire). La berlusconiana “politica del fare”, presunto simbolo di innovazione, ha così riproposto in qualche modo i contorni più negativi della politica degli anni ottanta. Amplificati dalle promesse mirabolanti e dalle realtà virtuali fatte intravedere, favoriti anche da troppi “intervalli di silenzio” dell´informazione (di quella televisiva in modo particolare, con rarissime eccezioni).
Anche il Paese, infine, dovrebbe interrogarsi meglio su se stesso. Una nazione che non sente il bisogno di essere realmente e assiduamente vicina a una propria parte ferita rischia di smarrire, e forse sta già smarrendo, la propria ragion d´essere più profonda.
La Repubblic 24.06.10