Con piacere ho riscontrato, in qualche confronto televisivo recente, un Bersani tosto, che le cantava chiare a Tremonti, non facendosi intimidire dal suo saccente pierinismo. Mi è sembrata pertinente ed efficace la tesi più volte ribadita dal segretario Pd.
E cioè siamo pronti a discutere di tutto, ma a una condizione: che finalmente si pronuncino parole di verità e soprattutto (traduco e chiedo scusa) che la si finisca di prenderci per i fondelli. Mi chiedo spesso perché mai, a sinistra, politici di primo piano diano credito a Tremonti. Forse – mi rispondo – perché, dentro un governo che di sicuro non brilla per competenze e per cultura, egli rappresenta la rara eccezione di persona che ha fatto qualche buona lettura e che non si risparmia nell’esibirla con sussiego. Dunque, possiamo tradurre così, la cosa si spiega con il proverbiale elitarismo della sinistra e, rispettivamente, con il deficit culturale di una destra nella quale Tremonti farebbe eccezione.
Tuttavia, come qualcuno ha osservato di recente, il ministro dell’economia va misurato sul piano dell’azione e non delle teorie o dell’ostentata erudizione, sulla politica economica e non sulla filosofia della storia. Ed è su tale più appropriato terreno che si impone un giudizio decisamente severo. In primo luogo sul bilancio della sua azione. Come per Berlusconi, anche per Tremonti, vale il principio secondo il quale è tempo di chiedere conto di lunghi anni nei quali egli è stato il dominus della politica economica. Quale il consuntivo: su crescita, liberalizzazioni, debito, deficit, mezzogiorno, lotta all’evasione, equità sociale? Quali le riforme legate al suo nome? Un bilancio reso difficile soprattutto dal suo funambolismo: egli davvero ha recitato tutte le parti in commedia. Dapprima ostile all’euro e ai vincoli comunitari e ora arcigno guardiano di essi; campione della finanza creativa e delle cartolarizzazioni e poi cantore dell’economia produttiva; rigorista oggi ma autore ieri di una sequela di condoni e di scudi fiscali che premiano e incoraggiano i grandi evasori; prima liberale, poi colbertista censore del mercatismo e infine di nuovo convertito a una costituzione economica di stampo radicalmente liberista al punto da proporre la riscrittura dell’articolo 41 ove la libertà economica è coniugata con l’utilità sociale. Palesemente un diversivo a giustificazione delle liberalizzazioni mancate o addirittura revocate.
Non più tardi del novembre scorso, all’università Cattolica che imprudentemente gli aveva affidato la prolusione dell’anno accademico su un tema di scienza economica (Tremonti non è un economista e non ci sono precedenti di una prolusione affidata dalla Cattolica a un ministro in carica) accreditandolo come teorico dell’economia sociale di mercato, egli tesseva l’elogio della dottrina sociale della Chiesa e, segnatamente, dell’enciclica sociale Caritas in veritate. Segnalo che, indiscutibilmente, uno degli articoli della Costituzione della repubblica più conformi alla dottrina sociale cristiana, è appunto quello che oggi Tremonti e Berlusconi vorrebbero riscrivere. Se è vero che, per l’etica sociale cristiana, l’economia va concepita come attività etica da inscrivere nel quadro del bene comune e il diritto naturale alla proprietà privata è a sua volta da armonizzare con la destinazione universale dei beni. In questa nuova recita tremontiana si inscrive la sua bizzarra uscita recente in sede Cisl sulla dura vertenza Fiat di Pomigliano ove l’accordo è stato da lui rappresentato come modello per chi si ispira all’economia sociale di mercato. Che c’entra? Anche io penso che sia ragionevole e responsabile che i sindacati diano l’assenso alle pur pesanti e ultimative condizioni poste da Marchionne. Ma è questione pratica, un compromesso obbligato. Il cuore dell’economia sociale di mercato non è la rinuncia unilaterale al conflitto ma appunto la finalizzazione etico-sociale della stessa iniziativa economica. Proprio ciò che si vorrebbe cambiare in Costituzione. Di questa babele, alimentata dal fumo ideologico e propagandistico di Tremonti, è sintomatica la circostanza che quella sua uscita sull’articolo 41 non abbia suscitato reazioni in sede Cisl, un sindacato che affonda le sue radici in quel pensiero sociale cristiano di cui quell’articolo è impregnato.
Ancora: Tremonti sferza gli economisti perché, a differenza di lui, non avrebbero previsto la crisi internazionale ma per lungo tempo ha fatto da spalla al querulo ottimismo del premier, dissipando risorse (Alitalia, Ici) che sarebbero venute utili oggi dentro una crisi che si è fatta drammatica.
La disinvoltura, la spregiudicatezza dell’uomo, vero e proprio zelig della politica italiana, si rinviene anche sul piano più strettamente politico. Solo per memoria: in origine uomo di area socialista è ora tra gli esponenti di punta della destra italiana; candidatosi per la prima volta nel 1994 nelle liste centriste di Segni e Martinazzoli il giorno dopo le elezioni passò con Berlusconi assumendo direttamente la responsabilità di ministro; sta formalmente nel PDL ma il suo effettivo riferimento politico e il partito che più lo sostiene è semmai la Lega; intestatario di un potere esorbitante nei confronti degli attori economici industriali e finanziari, ama recitare la parte dell’uomo del popolo, del censore dei potenti, specie quando, con sovrano snobismo, si esibisce quale comiziante nella assemblee leghiste, ove mena vanto di non leggere libri. Non è sorprendente che, magari solo per fare dispetto a Berlusconi, si dia credito a uno così?
da Europa Quotidiano 23.06.10