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"Quello che le tv non raccontano: viaggio nel cuore della città ferita", di Jolanda Buffalini

Non si politicizza una tragedia», dice il sindaco dell’Aquila. Ha chiamato i giornalisti, ha organizzato dei piccoli autobus, «i primi a entrare nel centro storico» dalla notte del 6 aprile di un anno fa, si è improvvisato cicerone nella speranza che gli occhi vedano, soprattutto quelli delle telecamere, che sono gli occhi degli italiani, perché solo gli occhi possono raccontare una tragedia che rimane immota – Aquila immota manet è scritto nei gonfaloni della città – e che si raccoglie nel nucleo distrutto e deserto di quella che asetticamente viene definita la «zona rossa». «Se salta il nucleo, il centro storico – dice il sindaco medico – gli elettroni impazziscono. Gli adolescenti stanno pagando più di tutti. Si incontrano nei centri commerciali e hanno cominciato a bere alcolici. Ancora non siamo riusciti a ricostruire le attrezzature sportive distrutte dalle tendopoli. Gli anziani sono spaesati. Mille nuclei monofamiliari non hanno ancora una sistemazione».

Caschetti bianchi, scorta dei vigili del fuoco e della sicurezza del comune. Ci si addentra camminando al centro delle antiche e strette strade deserte. I palazzi settecenteschi e le abitazioni modeste sembrano in piedi ma la verità è che in piedi sono solo le facciate, fantasmatiche quinte teatrali di una città che amava il teatro, lo faceva anche nelle chiese, a San Filippo, Sant’Agostino, ora imprigionate da puntelli che, dentro, fanno una maglia stretta a contrastare l’implosione e che ha fatto precipitare i piani alti su quelli bassi. Il sindaco non fa polemiche: «L’emergenza è stata affrontata bene, ma già dalla fine del 2009 i soldi sono cominciati a mancare. Procedere per ordinanze ha funzionato all’inizio, ora ci vuole una legge. Non chiediamo niente di più, anche qualcosa di meno, di ciò che è stato fatto per gli altri terremoti». Il sindaco cicerone si ferma a San Pietro a Coppito, a Santa Maria di Paganica. Mostra, illustra: «Chiederci di pagare gli arretrati delle tasse a un anno dal terremoto è come chiedere a un paziente fortemente anemico di donare il sangue». Si ferma fa un cenno di saluto con la mano: «Ciao papà». Il signor Umberto Cialente, 84 anni, si è infilato fra i visitatori, con l’amico Giovanni Di Stefano, 76 anni: «Quello che fa più – dice Umberto – è vedere alla televisione solo il palazzo del governo o la chiesa delle Anime Sante. Gli italiani si sono fatti l’idea che solo poche cose sono state colpite. Invece è tutto distrutto».

«Tassa di scopo – dice il signor Di Stefano – una volta si faceva con una giornata di lavoro di tutti gli italiani», ricorda da pensionato delle Poste. le cifre Vediamole in cifre queste distruzioni, a cominciare dalle macerie: 4 milioni le tonnellate prodotte dal sisma, ma solo 72mila quelle fin qui rimosse. L’assessore al patrimonio storico Vladimiro Placidi ha fatto una scheda sugli edifici di valore gravemente danneggiati: 1047 chiese, di cui 51 in centro, 116 nelle frazioni, 880 negli altri comuni del cratere. 718 palazzi, di cui 444 nel centro storico dell’Aquila. Il calcolo è che per il solo centro storico storico sono necessari 9 miliardi, una cifra non lontana da quella che era stata spesa per il terremoto del Friuli nel 1995. L’avvocato Pierluigi Pezzopane è assessore alle Pari Opportunità. Racconta come il figlio Alessandro premesse: «Allora quando lo riaprite ‘sto centro?». Fino a quando lui se lo è portato a fargli vedere come erano ridotti i posti della sua adolescenza. «Papà – ha chiesto poi Alessandro – dimmi sinceramente, tu pensi che per noi qui ci sia un futuro?». Su 6000 imprese sono 4000 quelle che hanno chiesto indennizzo per i danni da terremoto. Le ore di cassa integrazione sono passate da 227mila nel 2009 a un milione 760mila nel 2010. In una delle strade deserte, sotto al ponteggio, gli operai edili Luigi Ciuffetelli e Renato Colageo sono senza caschetto: «Pausa pranzo!», rassicurano il responsabile della sicurezza del Comune.

Per un cantiere sono al lavoro in tutto 4 operai. «Fossimo di più si andrebbe più spediti- dice Ciuffetelli – ma le ditte non si arrischiano perché i soldi arrivano con il contagocce». Guido Bertolaso ha tuonato da lontano: «Mostrate quello che abbiamo fatto». E la visita si conclude al progetto C.a.s.e.: «le migliori, le più vicine alla città», spiega Cialente. Il controcanto lo fa Federico D’Orazio, studente in medicina, alloggiato nelle C.a.s.e di Coppito: «Su una piastra antisismica poggiano 24 appartamenti per il costo di 3 milioni e mezzo. Nel mio condominio, in periferia, in un posto dove i lavori sarebbero potuti cominciare presto, abitavano 18 nuclei familiari, quasi gli abitanti di una piastra. Il preventivo per i lavori nel nostro condominio, con gli adeguamenti sismici, non raggiunge il milione. Che necessità c’era di spendere tanto per noi? Le case in legno sono confortevoli, più grandi e sarebbero state sufficienti. Avrebbero potuto risparmiare, costruire le case durevoli solo per gli abitanti del centro storico, che dovranno aspettare più a lungo. E usare quei soldi per la ricostruzione».

L’Unità 23.06.10

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“E i giornalisti scoprirono le macerie dell’Aquila” di Giovanni Maria Bellu
Noi de l’Unità già conoscevamo quell’emozione per averla provata all’inizio di aprile quando venimmo qua, all’Aquila, con la nostra redazione-mobile, in occasione del primo anniversario del terremoto. Ieri l’hanno provata tanti altri colleghi che hanno visto per la prima volta la “zona rossa” e le sue macerie. Un’emozione rara per un giornalista: la sorpresa. Ancor più rara, e ancor più strana, se si considera che il terremoto dell’Aquila ha avuto, specie nei primi mesi, una copertura mediatica straordinaria: migliaia di articoli, centinaia di ore di televisione. Con una tale mole di informazioni chiunque, e a maggior ragione un professionista dell’informazione, avrebbe dovuto avere un’idea molto precisa dello “stato dei luoghi”. E dunque, nel visitarli, non avrebbe dovuto sorprendersi.

Magari restarne colpito, sì, perché vedere è un’altra cosa. Ma non sorprendersi. A meno di non scoprire una realtà nuova e, per alcuni suoi aspetti essenziali, sconosciuta. Il sindaco Massimo Cialente stava per avviare il tour dei giornalisti tra la macerie, quando le agenzie di stampa hanno diffuso il testo di una lettera di Guido Bertolaso il quale suggeriva ai giornalisti di non limitarsi a guardare le macerie e li esortava a soffermarsi anche sulle grandi cose che sono state già fatte. In definitiva, chiedeva ai giornalisti di fare quanto il principale telegiornale pubblico e il principale telegiornale privato (non a caso le loro telecamere ieri erano assenti) hanno fatto in questi quattordici mesi: nascondere la realtà e assecondare l’uso propagandistico del terremoto. Chissà se il sottosegretario alla protezione civile, mentre scriveva quell’incredibile appello alla stampa, era consapevole di rendere una pubblica confessione. O se invece, obnubilato egli stesso dalla disinformazione televisiva, davvero crede che le cosiddette “grandi cose” realizzate coi fiumi di denaro della gestione emergenziale possano nascondere il dramma degli aquilani: decine di migliaia di persone che cominciano seriamente a temere che la loro città sia entrata in un coma irreversibile. Destinata, come ha detto Cialente, a diventare una moderna Pompei. L’impresa della ricostruzione dell’Aquila è enorme. I costi, già altissimi, possono apparire inarrivabili in una fase di così grave crisi economica. Ma a tutto questo si aggiunge il peso dell’uso irresponsabile del terremoto.

Col presidente del Consiglio che, un anno fa, nel pieno dello scandalo delle escort, tentava di rifarsi una faccia e una credibilità guidando tra le macerie i grandi della terra. E con le sue televisioni, pubbliche e private, che oggi – smantellato il palcoscenico – nascondono la realtà e accreditano, nell’opinione pubblica nazionale l’idea che gli aquilani siano degli incontentabili e lamentosi rompiscatole. Ci vuole molta pazienza e molta saggezza per sopportare tutto questo. E anche per sopportare un governo che (altro passaggio della missiva di Bertolaso) candidamente dice che sono state le comunità locali e chiedere di avere la gestione della “ricostruzione pesante” (che poi è, semplicemente, la ricostruzione). In parole povere: l’emergenza – con adeguate risorse economiche – è stata gestita dal governo sotto i riflettori. La ricostruzione – senza risorse – spetta al comune. E i riflettori o devono restare spenti o, nel caso in cui proprio sia necessario accenderli, vanno puntati sulle “grandi cose” realizzate dal governo. Fino al punto – è quanto è successo ieri – di costringere un sindaco a improvvisarsi cicerone tra le macerie della sua città per tentare di ristabilire, almeno parzialmente, la realtà dei fatti. Ma Bertolaso sa cosa è la vergogna?

L’Unità 23.06.10