Lo chiama «il miliardario». Gli dice che è in caduta libera e che racconta balle. Ironizza pesantemente su Tremonti e sulla Lega. Infine avvisa l’avversario: «Attenti, siamo un partito di governo provvisoriamente all’opposizione». È la prima notizia, allora (la seconda è senz’altro l’irrompere di queste maledette vuvuzelas perfino nei raduni di partito).
La prima notizia – dicevamo – è che Pier Luigi Bersani comincia forse a sentire un po’ di vento nelle vele. Sarà magari più per demerito del «miliardario» che per merito suo, ma fatto sta che quello che si è presentato al «popolo del Pd» radunato nel Palasport di Roma, è stato un Bersani pimpante e ottimista come da tempo non si sentiva.
Sarà pure vero, naturalmente, che tempi e sceneggiatura della manifestazione anti-manovra hanno risentito di evidenti influssi veltroniani (parla il professore, l’attore, c’è il filmato, poi il sacerdote…); e mettiamoci pure che un Bersani così irresistibilmente «antiberlusconiano» non lo immaginava più nessuno (lui che chiarì che «il più antiberlusconiano non è chi grida, ma chi lo manda a casa»), ecco, mettiamoci pure questo: la sostanza, però, non cambia. E la sostanza è che, dopo che Enrico Letta ha evocato il Vietnam, ora è il segretario a metterla giù veramente dura. E quasi presagisse lo scontro all’orizzonte, avverte che sta arrivando il tempo di schierarsi. Chiama in causa imprenditori, commentatori, la «classe dirigente» del Paese. E il monito è duro: «Di fronte a quel che sta accadendo – fa sapere – berlusconismo e conformismo hanno uguali responsabilità».
Dicono che Pier Luigi Bersani si stia convincendo del fatto che le elezioni potrebbero non essere poi così lontane; che quel «provvisoriamente all’opposizione», insomma, sia sempre più provvisorio. Qualche giorno fa, l’ha perfino fatto intendere. Il malessere sociale che cresce, man mano che la manovra diventa più chiara; le inchieste giudiziarie sulla «cricca» che (dopo Scajola) potrebbero costare il posto ad altri ministri o sottosegretari; e poi, naturalmente, la guerriglia che si è scatenata nel partito di maggioranza. Troppe cose segnalano che la situazione potrebbe finire fuori controllo. E precipitare.
Il fatto che i toni di Bersani crescano, allora, si può forse spiegare così. Applaudito da una platea da combattimento, preannuncia al partito una lunga campagna da condurre fino all’autunno, e chiede ai democratici di tornare tra le gente. Ma soprattutto mette nel mirino (a volte attaccandolo, altre blandendolo) il partito che forse considera – allo stesso tempo – oggi l’«anello debole» del patto di governo e domani – chissà – perfino un possibile, potenziale, alleato. La Lega.
Raffiche di critiche alternate ad ironie. Una sorta di filo conduttore (un tempo si sarebbe detto una linea), perché anche Chiamparino ed Errani avevano puntato l’indice contro la Lega. Criticando la manovra e i tagli di Tremonti («Nel ministero di via XX Settembre c’è perfino un supermarket: bell’esempio di equità…»), il presidente dell’Anci aveva accusato: «La prepotenza centralistica può anche vincere: ma a perdere non saranno i sindaci, sarà il Paese». E il governatore dell’Emilia Romagna aveva provocato: «Il grosso dei tagli lo fanno fare a noi: complimenti signori della Lega, ecco il federalismo. Ma a parte un nuovo ministro, c’è rimasto qualche federalista nel governo?».
Sventolii e ovazioni dalla platea, per questo Pd tutto all’attacco. E il più duro è stato proprio Pier Luigi Bersani. Che prima ha cominciando scherzando: «Con Va’, pensiero e tifando Paraguay, non si mangia…»), poi ha messo il dito in dolorose contraddizioni: «Questa Lega – ha accusato – è dura sugli inni e sul calcio ma poi sulle leggi diventa mollacciona. Sulla legge speciale per la Protezione civile, per esempio: che non è stata fatta da Roma ladrona ma da quattro ladroni. E c’è una bella differenza…».
Nella sostanza, quel che l’adunata romana del Pd sembra aver mostrato, è prima di tutto una sorta di cambio d’umore. Non è solo che i due attuali e principali terreni di scontro (i tagli della manovra e i tagli alle intercettazioni) siano considerati evidentemente favorevoli all’opposizione, è più in generale il fatto che il Pd – o almeno Bersani – veda moltiplicarsi le difficoltà di Berlusconi. «Erano tutte balle», dice Bersani annotando la ricomparsa della «monnezza» a Napoli e descrivendo la parabola della «favola dell’Aquila», finita in un pozzo nero fatto di tangenti, cricche e massaggi… Del resto, a dare ottimismo al Pd, non ci sono solo le difficoltà in cui è precipitata la maggioranza, c’è la statistica: in epoca di Seconda Repubblica – dal 1994 in poi – non è mai accaduto che il governo uscente venisse premiato dalle urne. Ed è alle urne – sperando che non tradiscano la statistica – che Bersani comincia a guardare. Per farla finita, magari, con quel «provvisoriamente»…
da www.lastampa.it