Al di là dello scontro quasi ideologico che si solleva ogni volta che si tocca la Costituzione, ciò che colpisce del dibattito sull’articolo 41 è la tesi che questo articolo sia ciò che ha frenato e frena la competitività italiana e che, modificandolo, l’Italia possa tornare a competere sui mercati internazionali. Ma è davvero così? E’ vero che la competitività di un Paese dipende dalla sua Carta costituzionale? Questa è la domanda che dovremmo porci in questo momento. In questa prospettiva è interessante andare a guardare le classifiche internazionali sulla competitività e scoprire che i Paesi più competitivi del mondo hanno alle spalle Costituzioni, modelli di Stato e di governo completamente diversi l’uno dall’altro.
In vetta alle classifiche troviamo infatti Paesi di tradizioni liberali e liberiste, come gli Stati Uniti.
Ma anche Paesi di tradizione social-democratica, come la Svezia e la Danimarca, così come troviamo democrazie parlamentari e presidenzialiste, Stati unitari e Stati federali, repubbliche e monarchie. Già da queste riflessioni sorge quindi più di un ragionevole dubbio. Il dubbio che forse la competitività dipenda da altri fattori. Ed infatti è così.
La competitività – che altro non è che la capacità di crescere nel lungo periodo – è legata ad altro. Si tratta chiaramente di una molteplicità di fattori, ma tre in particolare sono fondamentali: un sistema della ricerca e dell’istruzione moderno e competitivo, una pubblica amministrazione funzionale e trasparente, ed un sistema fiscale e redistributivo efficiente ed equo, che supporti il lavoro e gli investimenti. Investimenti non solo materiali ma anche e soprattutto immateriali, a partire proprio da quelli in ricerca, istruzione e formazione. E’ così che si crea un circolo virtuoso: una forza lavoro preparata e competitiva e un sistema di imprese che fa leva su tale capitale umano per generare innovazione e crescita.
Certamente mantenere questi investimenti e questo ciclo virtuoso in tempi di crisi non è facile, ma non impossibile. Basta guardare la Germania, che, pur dando alla luce una manovra finanziaria durissima con i tagli più pesanti dalla Seconda Guerra Mondiale, ha lasciato intatti tutti gli investimenti in istruzione e ricerca, dando mostra di una lungimiranza e di una prospettiva strategica invidiabili. L’Italia invece non solo ha tagliato pesantemente scuola, formazione, università e ricerca, ma non è stata nemmeno capace di portare fino in fondo alcune riforme avviate da questo stesso governo che avrebbero perlomeno dato un contributo a quei cambiamenti strutturali necessari per un eventuale reinvestimento futuro.
La riforma dell’Università è ancora ferma, rallentata non solo dai tanti emendamenti ma anche dall’evidente priorità data ad altri provvedimenti, dai vari Lodo Alfano fino all’ultimo provvedimento sulle intercettazioni, sui quali sono state spese molte più energie.
La riforma della pubblica amministrazione di Brunetta è stata in pratica mutilata dall’ultima manovra del governo che, per introdurre il blocco dei salari nel pubblico impiego, ha di fatto congelato (anche se non formalmente sospeso) tutta la parte della riforma che avrebbe introdotto un po’ di meritocrazia, valutazione e responsabilità nella pubblica amministrazione. Di riforma fiscale invece è stato quasi tabù parlare fino ad oggi. Adesso viene rispolverata, ma posta come subordinata alla più alta questione della «libertà di impresa» e alla modifica della Carta costituzionale. Creando un po’ di confusione sulle finalità di tale provvedimento, facendo quasi credere che questo articolo impedisca la creazione d’impresa. Non solo non è cosi, ma la creazione d’impresa, di per sé, non è un problema per il nostro Paese. In Italia si fa già abbastanza impresa, non a caso abbiamo una densità imprenditoriale tra le più alte d’Europa (circa 66 imprese ogni 1000 abitanti, contro 22 della Germania, 39 della Danimarca, e 40 della Francia).
Il problema delle imprese italiane è un altro: è la difficoltà di crescere avendo a che fare con una pubblica amministrazione lenta ed inefficiente, con una fiscalità complessa e penalizzante per chi davvero investe in innovazione e ricerca, e la difficoltà a trovare giovani (giovani veri, non quarantenni) preparati e ben formati sul mercato del lavoro. Questi sono i veri problemi delle imprese, e la modifica dell’articolo 41 non servirà a cambiare molto questo stato di cose. Anche la semplificazione della complessità normativa, la razionalizzazione di autorizzazioni e controlli può essere realizzata subito, senza modifiche costituzionali. D’altronde, è proprio questo governo che ha istituito il ministero per la Semplificazione normativa. Ed è proprio quel ministro, il senatore Calderoli, che pochi mesi fa si è fatto immortalare armato d’ascia e fiamma ossidrica mentre dava fuoco alle 375 mila tra leggi e regolamenti abrogati dal suo ministero. Viene naturale chiedersi come mai tra tutte quelle migliaia di leggi non ce ne fosse nemmeno una che sia servita a rendere più semplice la vita delle imprese e dei cittadini, tanto che oggi siamo ancora a parlare di normativa asfissiante.
Ecco, potremmo ripartire da lì, dal rilancio di una semplificazione normativa più mirata e selettiva, in modo da andare più incontro alle esigenze di aziende e cittadini. E da una riorganizzazione delle procedure e degli adempimenti burocratici per le imprese, per esempio realizzando in modo capillare su tutto il territorio gli sportelli unici per le attività produttive, istituiti per legge dodici anni fa ma nella realtà ancora largamente incompiuti, o, quando esistenti, raramente accompagnati dalle necessarie semplificazioni amministrative e dalla necessaria formazione del personale. Per realizzare tutto questo non è necessario creare una nuova Costituzione. Magari un nuovo ministro sì, potrebbe servire, visto che il ministro per le Attività produttive si è dimesso quasi due mesi fa e ancora non si è trovato un sostituto.
Insomma, se l’obiettivo è rilanciare la competitività del nostro Paese, investire tempo ed energie per modificare la Costituzione potrebbe non essere la strategia più efficace. Ci sono molte altre cose più incisive e fattibili subito che possono servire assai meglio a questo scopo. Se poi l’obiettivo è un altro, allora è un altro discorso.
La Stampa 16.06.10