Quando la politica parla troppo di grandi princìpi, puzza di bruciato. Perché i princìpi si cercano di osservare, se ci si riesce. Ma quando si sbandierano, con il contorno di dotte citazioni dei maestri del pensiero liberale, è bene diffidare da quel fumo di ipocrisia che copre l’arrosto: gli interessi.
La vicenda della legge sulle intercettazioni è, in realtà, abbastanza chiara e l’opinione pubblica, al di là della propaganda, ne ha capito benissimo il significato e, soprattutto, gli obbiettivi. Si possono riassumere in poche parole. Nei mesi scorsi, i giornali hanno documentato, anche attraverso la pubblicazione di conversazioni telefoniche, un clima di corruzione politico-amministrativa estesa e preoccupante. Alcune volte con gravi risvolti penali, altre volte solo con caratteri di malcostume. Ci sono stati certamente episodi in cui la rivelazione di particolari ininfluenti, rispetto alle indagini, ha colpito la sfera della riservatezza delle persone. E ha infangato l’onore dovuto a chiunque sia sottoposto a un’inchiesta, per l’obbligata presunzione d’innocenza fino a giudizio definitivo. Con violazioni della legge in vigore che già proibisce questi comportamenti e che, se fosse osservata, sarebbe assolutamente in grado di tutelare questi fondamentali diritti.
Il governo, sentendo montare l’indignazione dei cittadini per questi scandali che si abbattono sulla classe politica con impressionante frequenza, ha colto il pretesto degli abusi nella pubblicazione delle intercettazioni per varare una nuova legge che, se andrà in vigore, avrà due conseguenze: rendere più difficile, per la magistratura, l’utilizzazione di questo mezzo d’indagine e limitare fortemente il diritto-dovere dei giornalisti di informare i cittadini, per assicurare la garanzia fondamentale in un sistema democratico: il controllo dell’opinione pubblica sull’operato di chi ricopre un incarico pubblico.
Quello che più sorprende è la sottovalutazione degli effetti-boomerang di questa vicenda proprio nell’elettorato di centrodestra. E’ ingenuo pensare che l’elevazione di questa barriera preventiva a tutela degli interessi della classe politica riesca a ridurre il distacco che si sta approfondendo tra la cosiddetta ”casta” e i cittadini. In particolare, quella parte dei ceti moderati e popolari che ha votato per il Pdl e per la Lega è più sensibile alle parole d’ordine di maggior tutela della sicurezza lanciate in campagna elettorale proprio da quei partiti. Non si capisce come possano plaudire alle limitazioni d’indagini, a causa delle maggiori difficoltà per poter intercettare le conversazioni, a cui saranno costretti magistrati e forze dell’ordine. Né come questa legge possa rientrare nelle priorità dei loro interessi quotidiani, che non sembrano particolarmente minacciati da intercettazioni.
E’ abbastanza illusorio, inoltre, che la legge approvata al Senato riesca a evitare la pubblicazione di indiscrezioni sulle indagini in corso. Il rapporto tra magistrati e giornalisti dovrebbe essere improntato alla massima chiarezza sulle conseguenze dei rispettivi comportamenti. Già adesso si sconta un clima di assoluta incertezza tra i cronisti per le disparità di valutazioni tra procura e procura, giustificate magari con ambiguità nell’applicazione di norme che, in realtà, non sono affatto ambigue. In futuro, la confusione delle procedure, le violazioni della legge imposte dalla deontologia professionale, l’apertura incomprimibile del villaggio globale sulle informazioni, tramite i più moderni mezzi di comunicazione, susciteranno una guerra senza regole, a colpi di veri o falsi scoop, con effetti diametralmente opposti a quelli che si vogliono raggiungere.
La contraddizione, poi, tra le esigenze più sentite dai cittadini e le scelte governative sono patenti. Si parla degli eccessivi costi della politica e, poi, non solo i “tagli” agli stipendi sono sostanzialmente simbolici, ma la ventilata abolizione delle province finisce in un ridicolo “nulla di fatto”. Per non parlare della riduzione del numero dei parlamentari, di quella dei consiglieri in tutti gli enti locali. Una delusione che non sarà certamente compensata dalla lettura, in tv, delle retribuzioni di Santoro o della Dandini.
La stravagante agenda dei provvedimenti del governo rischia, infine, di mettere in particolare difficoltà la Lega. Gli elettori di Bossi sono forse i più diffidenti nei confronti delle «esigenze» della classe politica. Eppure, sull’altare della speranza che la manovra di Tremonti non comprometta il sogno del federalismo fiscale, hanno dovuto accettare il dietro-front sull’abolizione delle province. Sollecitato, tra l’altro, dallo stesso Bossi che temeva di perdere qualche amministratore locale della Lega. Hanno constatato l’esiguità dei sacrifici imposti a parlamentari e ministri e udito, proprio per bocca di alcuni loro rappresentanti arrivati nelle stanze del potere locale, la necessità di tagli alle spese di comuni e regioni. Ora, devono assistere al tentativo d’innalzamento di una, sia pure velleitaria, cortina fumogena sui comportamenti di chi li governa. Una serie di bocconi amari davvero faticosi da digerire anche per chi ha stomaco robusto e molta fiducia nell’avvenire.
La Stampa 12.06.10