«Fare leggi rispettando questa Costituzione è un inferno». Certamente, alle molte e anche contrastanti definizioni di “Costituzione” mancava ancora questa: ma c´è da sperare che d´ora in poi i manuali di diritto costituzionale tengano conto anche della Costituzione come inferno, ultima delle esternazioni di Berlusconi in questi giorni.
D´accordo. Si tratta del solito espediente grazie al quale una sostanziale vittoria (il provvedimento sulle intercettazioni) viene fatta passare, in perfetto stile democristiano, per un compromesso di cui non si è soddisfatti: a ciò Berlusconi è spinto anche dal timore di esser poi travolto nella sconfitta nel caso che dal Quirinale venga uno stop alla legge. La prova di forza della “blindatura” – e a maggior ragione il pugno sul tavolo del voto di fiducia – è venata da debolezza, come ha scritto ieri Ezio Mauro. Al tempo stesso si tratta di una mossa diversiva, per aprire una polemica che distolga l´opinione pubblica sia dalla legge-bavaglio sia dalla manovra economica, due provvedimenti fortemente impopolari. E per incolpare qualcuno o qualcosa – la Costituzione, chi l´ha voluta in passato, chi la difende ora – come responsabile delle debolezze e delle contraddizioni dell´azione di governo, che vanno imputate invece alle divisioni nella maggioranza e all´uso distorto delle istituzioni, che non sono state pensate per essere utilizzate come ora avviene.
Il discorso pubblico che proviene da Berlusconi – esplicitamente post-costituzionale, e ormai anti-costituzionale – è infatti consapevolmente centrato sul trasferimento nel campo politico delle logiche imprenditoriali del “comando efficace”, libero da ogni contropotere costituito, anche da quello delle norme e delle procedure. La funzione pubblica è quindi concepita come qualcosa di discrezionale, che dipende dalla volontà del Capo: non a caso egli afferma che la Protezione Civile dovrebbe astenersi dal suo dovere, in Abruzzo; e che la Rai non dovrebbe vedersi rinnovare il contratto di concessione, se non si piega ai suoi voleri.
Questo prevalere del Privato sul Pubblico viene definito da Berlusconi “sovranità”: quel Privato ha infatti vinto le elezioni, e ha quindi ricevuto un presunto mandato dal popolo sovrano a governare senza limiti né controlli. A questa aberrante conclusione egli giunge poiché concepisce la sovranità come la titolarità e l´esercizio di una volontà monolitica e irresistibile (in un certo senso, come facevano i giacobini, che concentravano nelle loro mani la sovranità del popolo). È questo modo di pensare che gli fa dire che i pm e la Corte Costituzionale, esercitando le loro funzioni giurisdizionali, attentano alla sovranità; che cioè lo colloca al di fuori della dimensione costituzionalistica che la nostra democrazia si è consapevolmente data nel secondo dopoguerra. Infatti, la nostra Costituzione (non senza suscitare a suo tempo qualche perplessità, anche a sinistra) ha impiantato sul corpo della sovranità popolare l´elemento – che proviene dalla civiltà politica e giuridica del costituzionalismo inglese e americano – del controllo di legalità, da parte della magistratura, sulle azioni dei membri del ceto politico in generale, e del controllo di legittimità, a opera della Corte Costituzionale, sugli atti del Legislativo (e sui decreti dell´Esecutivo). Nessuno, nemmeno la sovranità popolare, è onnipotente: la politica si manifesta attraverso il diritto che limita, con la legge, ogni potere; e garantisce così i diritti di tutti.
Se Berlusconi afferma che agire secondo la Costituzione è un inferno, evidentemente pensa che il paradiso sia il potere senza limiti: il potere privato di un padrone (in greco, despòtes), reso onnipotente dall´investitura popolare. Insomma, la sua idea di sovranità è privata e al tempo stesso assoluta: è, tecnicamente, un´autocrazia plebiscitaria. La quale oggi si manifesta con chiarezza programmatica, ma forse anche epigrammatica: come annuncio di linee d´azione “riformistiche” per l´avvenire (secondo le parole di commento di Bossi, e secondo le proposte recentissime di Tremonti sull´articolo 41), ma anche come commento conclusivo di un ciclo politico, reso “infernale” proprio dalla sopravvivenza ostinata della Costituzione.
In ogni caso, questo “discorso” – che, certamente, cela la concreta finalità di coprire specifiche persone rispetto a specifiche responsabilità in specifiche inchieste giudiziarie: una finalità parziale alla quale si sacrificano beni collettivi come l´efficacia delle indagini e la libertà dei cittadini – fa passare come ovvia la tesi che la politica consista in un comando senza controlli, purché efficace. Ed è questa tesi a distaccare gli italiani dalle radici del loro passato democratico e costituzionale (recente, ma anche ormai remoto: o almeno così pare), e a generare, proprio col suo apparente tono iperpolitico, uno specifico atteggiamento antipolitico, cioè quell´analfabetismo civile che afferma qualunquisticamente che solo i fatti contano, e che le regole sono soltanto pastoie che frenano l´agire dei governanti. Una tesi, quella espressa da Berlusconi, che ha almeno il merito della chiarezza; e che individua un fronte di conflitto politico dal quale sarà difficile sottrarsi, anche per chi lo volesse: il fronte che vede da una parte chi lotta apertamente contro la forma e la sostanza della Costituzione, e dall´altra chi la difende, consapevole che in questa difesa – si spera non rassegnata, né di maniera – consiste ormai la sostanza della nostra democrazia.
La Repubblica 10.06.10