I tagli alla cultura e i bavagli all’informazione sono ganasce di una tenaglia nella quale resteranno schiacciati la crescita intellettuale e il risanamento economico. Non si creano situazioni materiali nuove se le condizioni spirituali sono morte. Chi ha visto o studiato la ricostruzione dell’Italia dopo la guerra, lo sa. Il lavoro materiale, che dopo industrie, case, ponti, strade, ferrovie, avviò le prime rivoluzioni di una vita immobile da secoli, ci diede la velocità, che da cinque portò a sei i sensi degli uomini, la libertà di leggere, scrivere, imparare, realizzare e vedere nuovi film, nuove opere a teatro, conoscere il mare e i primi paesi oltre le Alpi, la nuova musica e i nuovi balli, la nuova letteratura e quelle prima interdette, ci diede la scuola pubblica ben oltre la quinta elementare. Era la cultura che sostituiva il sacro e secolarizzava la società, come ha scritto ieri Europa. La crescita si poté misurare dieci anni dopo la guerra, quando l’Arno tornò a distruggere Firenze, e gli italiani corsero a salvarne le cose e i loro valori.
Quelle cose e quei valori erano emersi in ragazzi, ragazze e adulti come antiche civiltà sepolte, che prima non avevamo saputo di portarci dentro. E per la prima volta concretezza e bellezza, pane e cultura, economia ed estetica si fusero, com’era stato nella civiltà ellenica e del rinascimento. Con in più la libertà uguale.
Ma il potere continua a temere, anche oggi, che la libertà dei singoli scavalchi l’ortodossia su cui si regge il trono di chi governa. Anatemi e insofferenze non sono mai mancati; e prima di Berlusconi e dei suoi Bondi-Gelmini ci sono stati il “culturame” di Scelba e il sarcasmo di Togliatti, l’egemonia della scuola di classe, l’egemonia della contestazione “globale”, gli “intellettuali dei miei stivali” di Craxi. Ma nessuno aveva mai teorizzato e praticato una politica di annientamento simultaneo di cultura e comunicazione, sapendo che notizia, commento, comunicazione, riflessione, pensiero sono mattoni del dna della libertà, il frutto proibito che ci potrebbe far conoscere i famigerati arcana imperi del Principe, e anche le miserie dei suoi servitori, la cui protezione privilegiata oggi si confonde con la privacy.
Nessun governo aveva mai pensato di tagliare risorse a università e ricerca accomunando scienza e baronie in un’unica falciata. Nessun governo s’era permesso di dire che chi vuole a scuola il tempo pieno se lo deve pagare, come nella scuole private. Così hanno stilato una lista di enti da sopprimere, in parte inutili in parte gioielli della crescita culturale, come l’Eti o il Centro sperimentale di cinematografia: proprio mentre, o forse proprio per questo, l’Italia è applaudita a Cannes per film eretici, cioè liberi, come Draquila di Guzzanti o La nostra vita di Lucchetti: una volta sarebbero stati accusati di vilipendio, oggi ci si limita a denunciare come denigratori dell’Italia non le mafie assassine ma Saviano e le fiction Rai che le descrivono. È da questa sottocultura di governo che nascono le barzellette tragiche, come l’estetica delle fioriere per il G8 di Genova o la trasformazione del terremoto dell’Aquila in proscenio internazionale del “fare”, salvo le mattanze alla caserma Diaz e il cinismo dei palazzinari protetti. Oppure nascono le barzellette ridicole, come i film sulle radici padane, ieri Alberto da Giussano, oggi un certo fra’ Marco d’Aviano, gran consigliere di Leopoldo II nella battaglia di Vienna, vinta quattro secoli fa da Eugenio di Savoia, come sa anche il turista del Texas che ne ammira il monumento nel Ring. Dicono che Rai fiction e Rai cinema concorreranno a finanziare fra’ Marco d’Aviano. È questa l’alternativa culturale di un governo che identifica la crescita con gli interessi. E perciò onora gli evasori e infama gli insegnanti.
È l’ultima e più sottile evoluzione del golpe. Il generale De Lorenzo ci fece sentire il tintinnio di sciabole, la “mafia” l’esplosione del tritolo ai Georgofili, al Velabro, a Milano, il comandante Borghese inviava una colonna di Guardie forestali da Monte Mario sulla Rai di via Teulada, Licio Gelli spiega la conquista dello stato attraverso lo svuotamento dei poteri dopo aver svuotato cervelli e coscienze, a cominciare dal potere parlamentare: del resto, cos’altro se non gusci vuoti erano stati i governi Kerensky e Facta di fronte a Lenin e a Mussolini? Oggi per conquistare la Rai non servono i forestali: provvedono dall’interno i gaulaiter, mentre le opposizioni tacciono, balbettano, inciuciano. Alla Lega che contesta gli sprechi (veri) del calcio, non si replica che lei si becca ogni anno 20 miliardi di finanziamento pubblico per alimentare la secessione dall’Italia. Tutti sembriamo i quattro amici al bar, che fine hanno fatto il conflitto d’interessi, o l’epurazione lombrosiana di Busi e Ferrario al Tg1? E i gaulaiter provvedono a colpire i conduttori non vespizzati, a toglierci RaiNews di Mineo perché la notizia è la prima pietra del dna democratico, a minacciare le inchieste di Gabanelli e Iacona, le ipotizzate quattro o due trasmissioni Fazio-Saviano, il Tg3 tutto. Resterà Radio Maria. Rispetto a tanta accidia, nell’incontro tra spettacolo, stampa, letteratura, sindacati Cgil, Cisl, Uil, magistrati, giornalisti, ricercatori, docenti, che s’è svolto ieri a piazza Navona, è stato assunto l’impegno di un nuovo incontro nazionale come quello del 3 ottobre a piazza del Popolo: non solo contro i tagli e bavagli all’informazione, ma contro l’asfissia della scuola e la censura sui delitti dei criminali e dello stato. Proibendo le intercettazioni, perfino la signora Aldovrandi e la signorina Cucchi non avrebbero saputo del massacro dei loro giovani familiari. E noi meno di loro. Anch’esse dovrebbero salire sul palco, a testimoniare come la libertà o è indivisibile o muore.
Europa Quotidiano 08.06.10