Ettore Scola: L’ultima speranza nel Bel Paese del «culturame»
Regina reginella quanti passi mi darai?» si cantava in uno di quei giochi infantili che era ancora possibile fare nelle strade urbane. Vinceva chi riusciva a fare il maggior numero di passi avanti senza lasciarsi sorprendere in movimento dalla Regina, che dava le spalle ai giocatori e dopo aver contato fino a 3 si voltava di scatto bloccando tutti i partecipanti in equilibri precari, su una gamba sola o con un piede a mezz’aria.
Ci si chiede: fermarsi a considerare quanti passi avanti si siano fatti, nella storia del gioco umano, può essere motivo di qualche consolazione? O di qualche amarezza? Sicuramente soddisfacenti sono i passi guadagnati nella conoscenza e nella scienza, che hanno fatto progredire le condizioni di vita di (quasi) tutta l’umanità. Meno esaltante il bilancio dei passi conquistati sulla strada dei comportamenti nel vivere associato, che restano incerti e traballanti. Su un piede solo.
Ma per fortuna viviamo in Italia e c’è qualcuno che veglia su di noi. Il grande Cicerone, dopo avere sventato la congiura di Catilina contro la Repubblica, esclamò in Senato «Com’è fortunata Roma, ad avere me come console!». Modestia a parte, anche oggi abbiamo chi lavora per noi, scegliendo il bene e scartando il male, risolvendo così, una volta per tutte, i problemi di questa benedetta congiura culturale che ostacola le sorti del paese.
Ci sarebbe solo qualche domanda da porre in proposito a chi sta individuando gli enti inutili da abolire e quelli utili da salvare. Per esempio sui criteri di scelta stabiliti, sul vaglio adottato per separare il grano dall’oglio, sulla distinzione tra investimento e spesa, sul concetto di ‘utilità’, sulla variabilità dei tempi sui quali calcolare ogni bilancio: un trimestre ? un anno ? due? dieci? un secolo? Anche la scuola, fosse giudicata da un profitto poco soddisfacente degli scolari di una prima elementare, potrebbe essere considerata inutile e abolita.
Bisognerebbe anche chiarire cosa si intende esattamente per Cultura, visto che è stato recentemente riesumato il termine di ‘culturame’, che era il segno dell’insofferenza, della rabbia e della paura che il politicame nutriva indiscriminatamente per quel complesso di conoscenze umanistiche, scientifiche, letterarie e artistiche messo a disposizione dello spirito critico dei cittadini.
Anche in un paese a lungo dichiarato miracolosamente esente dalla crisi internazionale arriva il momento di riconoscere che forse un po’ di crisi c’è. Che sia questa l’occasione per capire che specialmente in un’isola felice come la nostra, il cui sistema produttivo non si fonda sulle materie prime ma sui patrimoni storici, una crisi economica è anche se non soprattutto una crisi culturale? Che sia questa l’ora di porre mano a manovre d’intervento che non contemplino soltanto le filosofie del poco, maledetto e subito, ma che siano strutturali e preoccupate del futuro, incoraggiando e aumentando quelle risorse che si vogliono invece ridurre e striminzire?
Chissà. Forse sono speranze ottusamente ottimiste. Ma senza di esse non ci sarebbero manifestazioni come quella di oggi a Piazza Navona, indetta dai tre sindacati, dalla federazione della stampa, dall’Usigrai, dalla Sai, dalle associazioni degli autori, da tutti quelli che non hanno perso la fiducia di fare un passo avanti.
Regina reginella quanti passi mi darai?
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Vittorio Emiliani: La Carmen al mercato: che lezione di musica!
Sabato scorso, poco dopo mezzogiorno, le fiorentine e i fiorentini intenti a fare la spesa al mercato di Sant’Ambrogio hanno sentito, improvviso, il suono di una melodia molto popolare e poi una voce femminile che la intonava. Era lei, Carmen, la zingara che nell’habanera seduce il bell’ufficiale. Un video ben fatto li mostra sorpresi e sorridenti, mentre un’altra giovane cantante – fintasi venditrice – riprende il motivo e lo rilancia. C’è persino un accenno di tango col “casqué” con un cliente subito disponibile. Poi è la volta di una melodia ancor più popolare, nientemeno che il coro di “Traviata” intonato da Violetta «Libiam ne’ lieti calici” e qui il successo diventa calorosissimo.
Un’idea bella e intelligente di Ippolita Morgese, Peter Klein e Antonio Vanni «per riportare l’opera ad una dimensione popolare, un’operazione per la cultura e per la musica in un momento drammatico». Credo anch’io che questo sia uno dei modi più giusti per far capire quale straordinario patrimonio l’Italia abbia e come si possa dissiparlo in poche battute. Senza nemmeno rendersi conto dei guasti insanabili così provocati.
Le opere di Pergolesi, Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi, diffusero in una Italia ancora da unire o appena unita – dove soltanto il 5 per cento degli abitanti parlava e scriveva un italiano corretto – una lingua comune, da Torino a Catania, un gusto comune per la musica, il melodramma, i costumi, le scene, ineguagliabile, ancor oggi. I loggioni dei teatri, allora circa 1.100 (ne sono sopravvissuti oltre 800), erano stipati di popolo minuto. Ma erano diffusi – lo racconta il musicologo John Rosselli, figlio di Carlo – i “teatri di stalla” dove compagnie amatoriali riproducevano in piccolo le grandi opere fissando nella memoria le arie principali e i cori. Ai primi del ‘900, in provincia, poteva capitare che della “Manon Lescaut” di Puccini si dessero 16 recite e ben 6 dell’assai più difficile “Lohengrin” di Wagner. Capitava al Teatro Sociale di Voghera.
Poi tutta la musica è cresciuta, nonostante l’educazione musicale di base sia scarsa nella scuola italiana e nei licei non ve ne sia traccia (ma i tagli fanno sparire pure la storia dell’arte), nonostante una moltiplicazione non selettiva dei Conservatori (molti sarebbero potuti rimanere Licei musicali), con troppi allievi per farli suonare spesso assieme – come fa invece la Scuola di Fiesole di Piero Farulli – o di prepararli vocalmente come il belcanto esige.
Allo stesso modo non v’è dubbio che gli ex enti lirici, ora Fondazioni, siano stati finanziati troppo a lungo da Stato e Comuni senza adottare parametri qualitativi. Così una certa Fondazione per il personale spende sul 60 per cento e un’altra invece arriva al 76 per cento lasciando le briciole alla programmazione. La grave crisi in cui siamo immersi era l’occasione per rifare la macchina, per eliminare sprechi e rendite parassitarie, per attuare riforme studiate da competenti veri e onesti. Non per assestare colpi di mannaia nel mucchio, penalizzando i più meritevoli.
Un discorso che vale per il balletto i cui rari punti di eccellenza – vedi il lavoro svolto da Carla Fracci all’Opera di Roma (tanto decaduta, invece, sul piano musicale) – possono venire azzerati di colpo. Un discorso che vale per il teatro di prosa, il settore che più di ogni altro ha aumentato, nell’ultimo periodo, spettatori e biglietti venduti, che vive di tante iniziative private, sovente giovanili, le quali rischiano il soffocamento perché non riescono a riscuotere i crediti dai vari teatri. Mentre nelle fiction tv vediamo livelli di recitazione spesso desolanti, frutto evidente delle “raccomandazioni”.
Eppure i talenti giovanili ci sono. Vanno scoperti, affinati, fatti lavorare. Sere fa al Parco della Musica di Roma si è data un’opera fra le più belle e difficili di Mozart, “Così fan tutte”. L’orchestra, formata da ragazzi dei Conservatori italiani, suonava con impegno brillante. I coristi della Cantoria dell’Accademia di S.Cecilia, commoventi a vederli così giovani, avevano belle voci espressive. Il cast era formato da cantanti, italiani e stranieri, alle prime armi, alcuni al debutto assoluto in scena, provenienti dai corsi di Master Class che Bruno Cagli da un decennio organizza, a S.Cecilia, con la bravissima Renata Scotto (sponsorizzati, soprattutto, da Laurel Schwarz generosa appassionata americana). Ebbene, il risultato scenico, musicale e vocale è stato sorprendente malgrado l’impervia difficoltà mozartiana.
Che ne sarà di cori, orchestre, cantanti, attori, ballerini, registi, costumisti in questa insensata mattanza di talenti?
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Vincenzo Cerami: Governare a vanvera
Nel brutale e sadico colpo mortale che il governo ha inferto alla Cultura c’è qualcosa che dovrebbe spaventare tutto il Paese. Mi riferisco non già alla riduttiva concezione che la destra ha da sempre delle nostre bellezze naturali e del nostro talento artistico, ma alla drammatica e lampante certezza di essere governati da gente che non sa da quale parte andare.
I tagli alla cieca sul budget dei Beni Culturali ci dicono che il governo non ha alcun progetto teso al risanamento economico e sociale dell’Italia. Getta alle ortiche la sua unica, vera, ricchezza, un tesoro che ci fa esistere nel mondo con rispetto e grande
prestigio, ma non ci dice perché. Ci dice che c’è la crisi e basta e che bisogna risparmiare dove si può. E siccome della Cultura si può fare a meno, perché in fondo è un passatempo, dalle sue casse si può togliere quasi tutto.
Nessun altro governo in Europa, in questo periodo di crisi, ha mai pensato di mettere al rogo risorse, come quelle culturali, che danno saldezza all’identità della nazione e che rappresentano una insostituibile difesa contro le derive depressive della crisi. Non solo, ma gli altri paesi civili hanno individuato nelle ricchezze della Cultura un terreno su cui operare investimenti preziosi e fruttuosi.
Il governo Berlusconi non si è fatto scrupoli a decidere un tale sfacelo in quattro e quattr’otto. Ha messo in ginocchio un settore così strategico e importante del nostro Paese, insieme con l’esercito dei suoi operatori e lavoratori, senza chiedersi come
“risparmiare” e come inserirlo in un processo più vasto di riassesto produttivo generale. Gli italiani, in questi giorni di lacrime e sangue, scoprono di vivere su una nave senza timone, che va dove la portano le onde. Di là i miliardi intascati dai corrotti del Palazzo, di qua precariato, cassa integrazione e licenziamenti. Fino a ieri ci dicevano che la crisi era solo virtuale. Adesso ci dicono l’opposto, che la crisi c’era anche prima e che «abbiamo scherzato». Se un governo non è in grado di dare prospettive, di dirci dove sta andando e dove vuole portarci, dovrebbe rassegnare le dimissioni. Berlusconi invece prende tempo e mobilita, umiliandolo, il Parlamento per questioni relative ai suoi personali interessi. È urgentissimo spegnere i fari su Alfano e accenderli
sulle persone, sulle categorie e sulle forze che sono in grado di elaborare un piano d’uscita dalla crisi, serio e credibile. Le
piazze cominciano a riempirsi di gente che non si fa violentare. Adesso tocca agli operatori della Cultura, che non difendono solo il loro lavoro, ma il prestigio e la dignità di tutto il Paese. Sono offesi dalla superficialità e dal disprezzo con cui sono stati messi da parte, quasi con un calcio nel sedere. Istituzioni gloriose e secolari, talenti costruiti nel tempo, esperienze straordinarie che sono patrimonio dell’umanità, vengono cancellati nel giro di poche ore, con un paio di telefonate, tra un paio di ministri.
Ovviamente incolti.
A fianco degli artisti e dei lavoratori dello Spettacolo e della Cultura, dovrebbero far sentire la loro voce tutti gli italiani, anche quelli che vivono di solo pane. A causa dei tagli mortali alla Cultura, si rendono conto di essere governati da chi ha solo idee confuse, da chi va avanti alla giornata. È questo che fa più paura, al di là della porcata anticulturale e “ideologica” della destra al governo.
L’Unità 07.06.10