Malacoscienza è la definizione che alla fine trova Nadia Urbinati, politologa “pendolare” fra Stati Uniti (dove insegna alla Columbia University) e l’Italia.
È la cattiva coscienza di una maggioranza che forza il dettato costituzionale sapendo di farlo. Ed è questa la ragione che spiega, sul piano etico e politico, perché si sta producendo in Italia una situazione che dà senso alla disubbidienza civile. Malacoscienza perché quella maggioranza «sa bene che è altamente probabile che il testo sulle intercettazioni non potrà superare il vaglio della Corte Costituzionale. Però potrà sfruttare ai propri fini il lasso di tempo in cui la legge sulle intercettazioni sarà quella approvata dalla maggioranza in Parlamento, e questo produrrà un danno alle nostre libertà».
Lei considera quindi opportuna la disubbidienza civile in queste circostanze?
«La disubbidienza civile è l’ultima risorsa, l’estrema ratio. È un’azione certamente politica ma che è messa in atto da individui, dal singolo giornalista, dal singolo magistrato che rischia. Prima di questo, la situazione ottimale sarebbe la mobilitazione politica più ampia possibile, attraverso l’impegno individuale e collettivo dei cittadini, attraverso la battaglia parlamentare e la mobilitazione dell’opinione pubblica, per cambiare o non fare approvare la legge. Quando tutti questi tentativi saranno stati fatti, se nonostante tutto questo, il ddl sulle intercettazioni sarà legge, allora la disubbidienza civile è – a mio avviso – eticamente giustificata ».
Dunque lei auspica, prima di tutto,una mobilitazione politica che eviti l’approvazione del disegno di legge?
«Tutto quello che si può fare come iniziativa politica e parlamentare, fino al ricorso alla Corte Costituzionale. Ma bisogna sapere che, una volta che ci sarà la legge, prima che l’Alta Corte si pronunci, passerà del tempo e questa legge produrrà sofferenza e danno alle nostre libertà costituzionali: sul piano della libertà di stampa, perché la nostra Costituzione ne prevede la limitazione solo in caso di grave rischio per l’ordine pubblico. E sul piano della separazione dei poteri, per i limiti che vengono imposti al lavoro dei magistrati. Io non sono una giurista ma mi pare che la Corte costituzionale non potrà ammettere questa legge. E le decisioni di maggioranza sono legittime solo nel rispetto del quadro costituzionale».
È questo che giustifica il ricorso alla disubbidienza?
«Sì, in una società democratica e costituzionale la disubbidienza civile è eticamente giustificata dal conflitto della legge con la norma superiore e fondativa dell’unità dello Stato. In questo conflitto vince la Carta costituzionale. Fu così in America, nella lotta contro la segregazione razziale. La disubbidienza non è il sovvertimento dell’ordine costituito, non è illegalità ma, al contrario, affermazione dei principi che stanno a fondamento dello Stato».
Si sta riferendo alle battaglie per i diritti civili degli anni Sessanta? «Il caso più celebre è quello di Martin Luther King,ma non fu il solo, ci furono molti casi di disubbidienza civile. Le leggi che proibivano ai neri di sedere negli stessi autobus con i bianchi, per esempio, erano in contrasto con la dichiarazione d’Indipendenza e con la Carta dei diritti».
Lei dice che questi sono i casi in cui la disubbidienza civile è eticamente e politicamente giustificata, ma chi disobbedisce può appellarsi a norme sancite dal nostro ordinamento?
«No, la disubbidienza civile è un atto di coraggio democratico dei singoli cittadini, che pagheranno per questo. E sanno che dovranno rischiare e pagare. Sanno che andranno incontro a conseguenze, se ne assumeranno la responsabilità e la colpa. Nella nostra Costituzione non c’è il diritto alla Resistenza, di cui pure si discusse nell’assemblea costituente».
L’Unità 01.06.10