C’è ancora qualcuno che se ne rammenta? Succedeva durante la prima decade d’aprile: il ministro Calderoli saliva al Colle per consegnare in anteprima al suo inquilino una bozza organica di riforma della Costituzione; il presidente Fini s’inalberava per non essere stato consultato; il presidente del Consiglio Berlusconi un po’ prendeva le distanze dal ministro, un po’ ammetteva che sì, nella bozza Calderoli c’era già – nero su bianco – un’idea condivisa dal governo; a sua volta l’opposizione un po’ difendeva la controbozza Violante, un po’ dava appuntamento alla maggioranza in Parlamento; e in Parlamento il presidente Schifani s’affrettava a prenotare l’aula del Senato per la prima lettura, per l’apertura dei cantieri. Insomma per un paio di settimane in Italia non s’è parlato che di semipresidenzialismo, riduzione dei parlamentari, Senato federale, nuovo Csm, nuova Consulta, nuova Repubblica.
E adesso? Sono volate altre sei o sette settimane, ma è come se fossero trascorsi sette secoli. Sulla scena pubblica sfilano ben altri temi: Criccopoli, la legge sulle intercettazioni, la manovra economica. L’urgenza di correggere la forma di governo non c’è più, oscurata da altre urgenze di giornata. Mille fra deputati e senatori non sono troppi, semmai sono troppe le volte in cui è stato sollevato l’argomento. E la Magna Charta per la Magna Italia? Sarà per un’altra occasione, intanto basta e avanza la nostra vecchia Carta. L’unica riforma con un po’ di benzina nel motore è la costituzionalizzazione del lodo Alfano, che giovedì è stato incardinato in commissione. Ma a fari spenti, meglio evitare che qualcuno se ne accorga.
Potremmo desumerne che le riforme costituzionali sono un tema modaiolo, come le scarpe a punta: per un po’ calzarle è obbligatorio, poi diventano out of fashion, poi tornano in voga. Oppure potremmo trarne una conferma di quanto sia effimera e nevrotica la nostra attenzione collettiva, sull’onda dei giornali che sfogliamo la mattina, e che a mezzogiorno sono già cartastraccia, buona per avvolgerci le scarpe (a punta). Ma almeno in questo caso non è colpa dei giornali: se una notizia non c’è, non puoi né sminuirla né gonfiarla. È la politica che ha spento i riflettori, lasciando le riforme al buio. Non è la prima volta, non sarà neppure l’ultima. Quanto alla società civile, in genere si sveglia per protestare contro questa o quella bozza di riforma; altrimenti dorme i sonni di Morfeo.
C’è allora una lezione che possiamo apprendere da questo silenzio, finché dura, finché di nuovo non gli subentrerà il frastuono. Correggere una Costituzione significa plasmare le basi della nostra convivenza. Serve perciò un esame di coscienza nazionale, e serve uno sforzo di lunga lena, senza calcoli tattici, senza retropensieri sull’immediato tornaconto di ciascuno. Serve insomma una tensione civile che è l’esatto opposto dell’attenzione intermittente manifestata dai partiti. È per questa specifica ragione che in Italia, dopo trent’anni da quando Craxi aprì le danze (settembre 1979), la Grande Riforma non vede mai la luce del mattino. Magari è meglio così, viste le premesse. Se ogni proposta ha come scopo di tirare uno sgambetto all’avversario, se mira unicamente a procurare un vantaggio elettorale alla parte politica che ci mette in calce la sua firma, il risultato sarà peggiorativo.
Perché è proprio questa l’esperienza che puntualmente si ripete. C’era alle viste un’elezione, quando il Senato approvò la riforma federalista dettata dal governo Amato, l’8 marzo 2001; anche se due mesi dopo le urne bocciarono l’Ulivo. C’era di nuovo un’elezione dietro l’angolo, quando il Parlamento mise un timbro sulla maxiriforma cucinata poi dal centro-destra, il 16 novembre 2005; e di nuovo la riforma portò male ai suoi padrini, i quali persero sia le elezioni sia il successivo referendum. Sarà per questo che il cicaleccio sulle riforme costituzionali si è acceso e spento a ridosso dell’ultima consultazione regionale. Quando entreremo in un’altra vigilia elettorale, i partiti torneranno a fare sul serio, e magari ne verranno a capo. Si tratterà probabilmente d’una riforma miope, con la vista corta; ma ormai ci siamo abituati.
Il Sole 24 Ore 29.05.10