Quale che sia l’esito parlamentare dell’infausto provvedimento sulle intercettazioni, un rilevante successo la campagna di stampa contro la legge-bavaglio l’ha già raggiunto: e cioè la mobilitazione dell’opinione pubblica, giuristi, intellettuali, editori, giornalisti, studenti e cittadini comuni, tutti schierati in difesa della libertà d’informazione, correttamente intesa come libertà di essere informati e quindi come libertà di informare.
Una confortante manifestazione di quella società civile, certamente sollecitata dall’impegno dei giornali e in prima linea del nostro, che spesso viene evocata come in una seduta spiritica. E che improvvisamente si materializza e si esprime come in un prodigio. Il post-it incollato sulla bocca di tanti lettori e di tante lettrici rappresenta ormai il simbolo di questa ribellione popolare, la bandiera di un’opposizione diffusa che va al di là dei numeri e dei seggi in Parlamento. Quel foglietto giallo, una delle più grandi “invenzioni minime” del nostro tempo, diventa così il distintivo di un’opinione pubblica – di destra, di centro o di sinistra – che si sente espropriata di un suo diritto fondamentale e perciò reagisce per riappropriarsene. Vogliamo sapere, insomma, per poter giudicare.
“Un individuo libero e attento ai suoi bisogni e interessi – scrive Eugenio Scalfari nel suo ultimo libro Per l’alto mare aperto – sente la necessità di inventarsi lo Stato, appunto come entità astratta, e la cittadinanza come status di massa, fondata sull’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge”. Ecco, il cittadino, lo Stato e il governo. Qui il governo in carica non amministra lo Stato né difende il cittadino, ma tende piuttosto a imporre una legge autoritaria e repressiva attraverso cui conculca, viola, calpesta i diritti dei cittadini.
Nella falsa retorica del regime mediatico, il ministro della Giustizia proclama che la legge-bavaglio serve a difendere – nell’ordine – la privacy, il diritto di cronaca e infine la funzione investigativa. Ma si tratta chiaramente di un artificio, o di un’ipocrisia bella e buona, per occultare lo spirito e la sostanza di un provvedimento liberticida. È vero infatti che occorre garantire un equilibrio fra questi tre diritti costituzionali, ma l’ordine semmai andrebbe invertito o comunque adattato alle circostanze, al caso specifico: la tutela della legalità, innanzitutto, come superiore interesse collettivo, poi l’informazione e quindi la riservatezza individuale.
Non c’è dubbio che abbiamo assistito finora a molti abusi nella gestione delle intercettazioni, telefoniche e ambientali, all’interno e all’esterno della sfera penale. Da strumenti d’indagine “straordinari”, spesso si sono trasformate in strumenti “ordinari”; da mezzi di ricerca della prova sono diventate prove in sé. Ed è fuori discussione che bisogna preservare il singolo cittadino dalla “gogna mediatica”, a maggior ragione quando è incolpevole o addirittura estraneo alle indagini. Le intercettazioni tuttavia restano assolutamente necessarie nella lotta al malaffare e alla criminalità organizzata, tanto più in un Paese come il nostro contagiato da una corruzione endemica e infiltrato dalla mafia, dalla camorra e dalla ‘ndrangheta.
La controriforma del governo Berlusconi – sulla quale perfino il presidente del Senato, Renato Schifani, sembra nutrire ora qualche ripensamento – non mira affatto a correggere e a sanare queste disfunzioni, bensì a colpire l’anello debole della catena, a punire i giornalisti, a mettere il bavaglio o la museruola alla libertà di stampa. Più che a contenere i costi per l’organizzazione della giustizia e a evitare i danni per i terzi incolpevoli, il disegno di legge del ministro Alfano punta in realtà a ridurre il diritto all’informazione, anzi a negarlo e mortificarlo. Non sono insomma la tutela del segreto investigativo e la difesa della privacy i veri obiettivi di questo provvedimento, quanto piuttosto la protezione della “casta”, il blackout sugli scandali di regime, il controllo dei giornali e dei telegiornali o magari la loro sottomissione al potere politico.
Nel nostro Codice, è già scritto del resto che le intercettazioni devono essere usate con la massima prudenza, solo quando ricorrono gravi indizi di reato e quando sono “assolutamente indispensabili al fine della prosecuzione delle indagini”. Che cos’altro c’è bisogno di aggiungere, di precisare, di limitare? Non abbiamo difficoltà a riconoscere, come convengono da fronti opposti il giudice Carlo Nordio e l’avvocato Giuliano Pisapia nel loro dialogo editoriale intitolato In attesa di giustizia, che a volte l’uso o l’abuso delle intercettazioni configura una “incivile violenza” o addirittura “una barbarie”. Più che punire i giornalisti o sanzionare gli editori di giornali, però, sarebbe opportuno individuare a monte le responsabilità effettive, impedendo che chi ha l’obbligo istituzionale di tutelare il segreto investigativo finisca poi per violarlo impunemente.
Proprio in forza del diritto all’informazione, i giornalisti hanno invece il dovere professionale e deontologico di divulgare tutte le notizie di cui entrano in possesso, una volta accertata l’attendibilità della fonte da cui provengono e verificato l’interesse generale ad apprenderle. Si può anche discutere allora sulla necessità di un Codice di autoregolamentazione in materia, da definire magari insieme ai magistrati, per darsi una disciplina migliore, rispettare ancora di più l’attività giudiziaria e la riservatezza dei cittadini. Ma di fronte a un interesse superiore della collettività la politica deve fare un passo indietro e rimettersi eventualmente a un’iniziativa del genere, se non vuole soffocare la libertà di stampa e quella d’opinione.
La Repubblica 26.05.10