L’incostituzionalità di una legge può essere provata solo quando la Consulta ci mette sopra un timbro.
Prima d’allora è un semplice sospetto, o in qualche caso un dubbio. Eppure il disegno di legge sulle intercettazioni è proprio di questo che ha bisogno: un esame urgente di costituzionalità. Se il Parlamento vi si dedicasse, farebbe certamente meno danni.
Nel caso di specie vengono in gioco tre libertà fondamentali: il diritto alla giustizia; il diritto alla riservatezza; il diritto all’informazione. Qualcuno saprebbe rinunziare all’uno o all’altro? Nessuno, né tra gli avversari né tra i tifosi di quest’ultimo provvedimento normativo. Difatti l’esistenza di una macchina giudiziaria capace di reprimere i delitti garantisce la nostra sicurezza collettiva: senza legalità saremmo come bestie nella giungla. A sua volta, il diritto alla privacy ci tutela contro l’invadenza dei poteri pubblici e privati: senza il dominio sulla nostra sfera intima, senza la possibilità d’appartarci fra le mura domestiche, saremmo come gli uomini narrati da Orwell, altrettante marionette del Grande Fratello. Quanto alla libertà d’informazione, non a caso la Corte Costituzionale – in una celeberrima sentenza del 1969 – l’ha definita «pietra angolare della democrazia». L’improvvisa sintonia fra tutti i direttori di giornale contro la stretta sulle intercettazioni può aver lasciato nei lettori un retrogusto amaro, l’idea d’una reazione difensiva, se non corporativa. Non è così: il lavoro dei giornalisti è in funzione della nostra libertà di cittadini. Se non avessimo più accesso alle notizie, tanto varrebbe confiscarci pure il voto.
Com’è possibile dunque miscelare questi tre ingredienti senza offendere la Costituzione? Tutto sommato, basterebbe evitare d’offendere il buon senso. Non serve una laurea in legge per capire che se in nome della privacy strangolo la legalità e l’informazione sarò un assassino, non un gendarme dei diritti. È insomma una questione di misura; o in termini giuridici di bilanciamento, di proporzione tra il dare e l’avere. D’altronde se mi metto in tasca un sassolino raccolto nella villa comunale, nessuno mi processerà per furto; ma se comincio a spalare terra per riempirci un camion, prima o poi arriverà una volante a sirene spiegate.
Ma non c’è misura in questa legge, a partire dalle sue stesse dimensioni: 5654 parole nel testo licenziato dalla Camera, prima che il Senato aggiungesse le proprie filastrocche. Non c’è misura in questo testo che comincia dalla lettera h-bis) ed esplode in un trionfo d’avverbi quando enumera le condizioni per rendere valide le intercettazioni: devono essere «assolutamente» indispensabili sulla base di esigenze «espressamente e analiticamente» indicate. Non c’è misura nel trattare la privacy del delinquente abituale alla pari di quella del cittadino onesto, né nel difendere la riservatezza dei politici, di cui dovremmo sapere pur qualcosa dato che ci domandano il voto. Non c’è misura in una procedura che si risolve nella processione del pm prima nello studio del procuratore, poi dinanzi al tribunale in composizione collegiale, doppia autorizzazione, doppie carte, tempi al quadrato. Infine non c’è misura – o forse ce n’è troppa – nel termine di 75 giorni per gli ascolti, anche se il giorno prima hai catturato per caso la voce di Bin Laden.
Basterà a sanare queste pecche il recupero del testo approvato dalla Camera, che permetteva la pubblicazione «per riassunto» delle intercettazioni? Come ha scritto Mario Calabresi, se ai pm viene sostanzialmente impedito il lavoro d’investigazione, i giornali non avranno più nulla da riassumere. Del resto non è il solo aspetto irrazionale della legge. C’è per esempio la metamorfosi dei quotidiani in libri di storia, giacché l’informazione dettagliata potrà venire pubblicata soltanto dopo l’udienza preliminare, e quindi dopo vari anni dall’arresto. C’è il divieto d’intercettare quando l’ascolto è utile, e il permesso quando è inutile. E c’è in conclusione l’oscuramento del buon senso: vietato intercettarlo.
La Stampa 26.05.10