Le cronache di questi giorni hanno veicolato due notizie significative provenienti da Trastevere, cioè dal ministero della Pubblica istruzione. Entrambe sono state riprese dalla stampa, ma ciascuna per suo conto: come se non avessero nulla a che fare l’una con l’altra. Vale invece la pena di tenerle unite, e di abbozzare una riflessione sul loro significato congiunto.
La prima notizia riguarda il pronunciamento del Consiglio di stato sul fatto che l’ora di religione “fa media” nelle pagelle degli alunni. Smentendo una precedente sentenza del Tar, il Consiglio di stato ha stabilito come, nel momento in cui uno studente sceglie di “avvalersi” (secondo il fatidico gergo concordatario) dell’ora di religione cattolica, tale materia diventa a tutti gli effetti obbligatoria e dunque concorre all’attribuzione del credito scolastico. Per parte sua, il ministro Mariastella Gelmini ha dichiarato di accogliere “con soddisfazione” tale pronunciamento.
La seconda notizia riguarda la prima riunione di un comitato paritetico composto da funzionari del ministero della Pubblica istruzione e da rappresentanti di un’associazione chiamata Biblia, avente per mandato di promuovere la lettura della Bibbia nelle scuole. In seguito alla firma di un protocollo d’intesa con il ministero, l’associazione Biblia – laica e aconfessionale – s’impegna a «progettare percorsi di lettura del testo biblico rivolti agli studenti dei diversi livelli d’istruzione in riferimento agli ambiti storico, artistico, etico, giuridico e letterario». Secondo indiscrezioni provenienti da Viale Trastevere, la sperimentazione didattica prenderà le mosse dal biennio delle scuole superiori, presumibilmente nell’ambito delle ore d’italiano.
Questa seconda notizia va considerata senz’altro come buona. E non soltanto perché suggella il prolungato impegno dell’associazione Biblia, a partire da un appello culturalmente e religiosamente “trasversale” firmato nel 2005 da intellettuali del calibro di Giuseppe De Rita, Margherita Hack, Amos Luzzatto, Claudio Magris. È una buona notizia perché sembra preludere a un insegnamento “disinteressato” dell’Antico e del Nuovo Testamento: insegnamento funzionale non alla catechesi (cioè all’indottrinamento) dei bambini e dei ragazzi, ma alla loro formazione tout court.
Come non sognare una scuola italiana dove la lettura della Bibbia diventi finalmente un percorso conoscitivo, un’avventura intellettuale, un’occasione di contaminazioni culturali? E se non ora, quando? Proprio in quanto le nostre scuole tendono a farsi sempre più “miste”, accogliendo alunni delle più varie origini e fedi, il Libro delle tre religioni (Ebraismo, Cristianesimo, Islam) dovrebbe imporsi come una lettura più che opportuna: una lettura necessaria per capire chi siamo e da dove veniamo, per imparare qualcosa di profondo sulle famose “radici comuni dell’Europa”.
Ma è a questo punto che le due notizie giunte da Viale Trastevere vanno sommate l’una all’altra, e pongono un problema. Oppure, quanto meno, evidenziano un paradosso. È il paradosso per cui il ministro Gelmini può cantare vittoria per l’ora di religione che obbligatoriamente va calcolata nei crediti scolastici, e insieme può riconoscere – promuovendo una lettura aconfessionale della Bibbia in orari diversi della didattica – che quell’ora di religione non è altro (giusto il Concordato) che un’ora di catechismo.
In fondo, è come se il ministro ammettesse così che l’ora di religione non coincide con l’ora della Bibbia. E così facendo, il nostro ministro della Pubblica istruzione rende omaggio – forse senza saperlo – a una tradizione ultrasecolare dell’Italia cattolica: al bronzeo principio della Controriforma secondo cui un conto è saper leggere i testi sacri, tutt’altro conto è essere buoni cristiani. Ma entrambe le cose, secondo il ministro, dovranno “fare media” il giorno degli scrutini, se non proprio il giorno del Giudizio universale.
Il Sole 24 Ore 24.05.10