Nella sua audizione alla Commissione istruzione del Senato (una rara apparizione concessa il 12 maggio) il ministro Gelmini ha sciorinato una serie di cifre in larga parte discutibili, se non palesemente errate. Inoltre, senza accorgersi che molti Paesi del mondo, pur nella difficile congiuntura economica,hanno incrementato i finanziamenti al settore, Gelmini ha giustificato i tagli effettuati e quelli in arrivo appellandosi alla crisi economica. Non ha dato nessuna certezza sulla consistenza del finanziamento futuro delle Università che, a oggi, si aspettano un taglio indiscriminato di 1,3 miliardi di euro per il 2011. Infine ha sostenuto più volte che “conservatori”
(sic!) sono coloro che si oppongono al suo disegno di legge di riforma universitaria (che andrà in Aula ai primi di giugno) e che lo stesso ddl è «stato il frutto di una lunga concertazione con gli operatori del comparto» (sic!).
È indubbia l’esigenza di intervenire in modo incisivo e organico sull’Università, invertendo una tendenza al declino assai preoccupante per il Paese. È altrettanto chiaro che molti dei problemi che affliggono il nostro sistema universitario sono anche responsabilità della comunità accademica. Ma sottolineiamo “anche”, perché la classe politica nel suo complesso è sicuramente corresponsabile e, in forme diverse, lo è anche la classe imprenditoriale. Tuttavia, non è distribuendo patenti di “conservatore” o “progressista” che si possono risolvere questi problemi. Si richiede invece un confronto serio con gli “operatori del comparto”, mai davvero ascoltati dal ministro Gelmini. Una riforma così importante richiede discernimento. Un discernimento che gli organi di informazione, troppo polarizzati dalle notizie eclatanti, non sempre realizzano. Bisogna capire bene cosa si può e si deve salvare, e cosa invece deve essere cambiato. Certo non ha senso, come invece avviene in questo ddl, enunciare principi fondamentali come l’autonomia, il merito, la valutazione, e poi tradirli uno per uno nell’articolato, disegnando un sistema di governo e una riorganizzazione degli atenei ispirati solo al contenimento della spesa. Certo non ha senso far finta che non esistano 25.000 ricercatori che svolgono (per legge) compiti di docenza, a fronte di circa 18.000 professori ordinari e circa altrettanti professori associati.
Il lavoro didattico che questa terza fascia svolge non è frutto dell’ipertrofia dei corsi causata dal “3+2” (troppe volte stigmatizzata, non sempre a ragione): anche razionalizzando l’offerta formativa, il carico didattico della terza fascia rimarrebbe essenziale per la formazione universitaria. Con buona pace del ministro, il numero complessivo dei docenti delle tre fasce è più basso di quello di molti Paesi europei con cui l’Italia deve confrontarsi. Chi avanza critiche e propone modifiche sostanziali al ddl è conservatore o progressista?
* Docente di storia della fisica
L’Unità 22.05.10