Mi ha generato un senso di smarrimento e paura la dichiarazione di voler tutelare la privacy dei boss mafiosi. Molti boss è proprio quando parlano con i familiari che danno ordini di morte. Ed è proprio quando i familiari a loro volta parlano con amici e conoscenti che rendono palesi le volontà di chi è latitante e impartisce ordini. È proprio nei momenti di maggiore intimità che viene fuori la mappatura criminale di un territorio. Addirittura osservando le conversazioni dei figli dei boss sui social network si possono evincere informazioni che probabilmente seguendo altri canali potrebbero sfuggire. Famiglie potentissime che festeggiano compleanni nel chiuso di quattro mura con pochi intimi: significa che non è il momento adatto per esporsi, significa che ci sono problemi sul territorio.
Quando si ha a che fare con le organizzazioni criminali tutto può essere utile per comprenderne i meccanismi. Per questo limitare l’utilizzo delle intercettazioni, renderne più ardua la disposizione e impedire che certe informazioni vengano pubblicate è un grave danno per il contrasto alla criminalità organizzata. Tutelando chi è vicino alle organizzazioni si tutelano indirettamente anche le organizzazioni stesse.
Nella maggior parte dei casi i filoni di indagine maggiori hanno preso le mosse da indagini secondarie che nulla sembravano, a primo acchito, avere a che fare con i reati commessi dalle associazioni mafiose. Quello che c’è da sperare, ora, è che chi fa queste dichiarazioni semplicemente non sappia di cosa sta parlando e non sia in malafede. Non so cosa sia meglio per il Paese, se avere a che fare con incompetenti, i dilettanti dell’antimafia, o con persone che invece agiscono consapevolmente in malafede. Non saprei decidere.
Il rischio che la legge sulle intercettazioni pregiudichi in maniera profonda la libertà di informazione e prima ancora la possibilità di fare indagini adeguate è troppo alto per poter lasciare il dibattito a chi, da una parte e dall’altra, ha solo interesse che la vicenda venga strumentalizzata. Contro il Ddl intercettazioni proposto dal ministro Alfano e in discussione al Senato insorgono magistrati, giornalisti, editori e l’opinione pubblica è divisa, quando non è confusa. Il governo parla di vietare la diffusione delle intercettazioni e del loro contenuto fino all’udienza preliminare, ovvero fino a quando il magistrato competente non abbia formalizzato l’accusa. E nel frattempo cosa possono scrivere i giornalisti? E cosa può sapere l’opinione pubblica? Che si stanno svolgendo indagini? A carico di chi e per che cosa?
La materia è assai vasta per poterne dare una valutazione complessiva, ma se prendiamo il caso del sottosegretario Nicola Cosentino, nessuno avrebbe potuto scriverne perché l’accusa è stata formalizzata solo dopo molto tempo dall’avvio delle indagini. Indagini che peraltro riguardavano illeciti commessi molti anni prima e i cui effetti erano sotto gli occhi di tutti. Poteva esser scritto che era partita una inchiesta dell’Antimafia di Napoli senza però poter indicare le ragioni, a quel punto sarebbe equivalso a non scrivere niente. A oggi non è stata ancora formalizzata una richiesta di rinvio a giudizio, il che significa che se vigesse già la legge in discussione nessuno potrebbe spiegare sui giornali, in modo chiaro, perché Cosentino dovrebbe essere arrestato. Lo stesso vale per la vicenda Bertolaso; nessuno potrebbe spiegare con elementi concreti chi sono Anemone e Balducci.
L’esigenza legittima di dare una misura, di porre un argine alla pubblicazione delle intercettazioni ossia di difendere la regolarità dello svolgimento delle indagini non deve in alcun modo, però, impedire la libertà di raccontare, di informare la gente su quel che sta accadendo. Perché se da un lato è necessario tutelare chi è oggetto di indagini da atteggiamenti giustizialisti o da garantismi pretestuosi, quello che non deve in alcun modo essere limitato è la possibilità di utilizzare tutte le risorse a disposizione degli inquirenti per fare chiarezza.
Ma in realtà questa legge è figlia diretta della logica mediatica. È una verità evidente sino a ora trascurata. Questa legge risponde al meccanismo mediatico che sa bene come funziona l’informazione e ancor più l’informazione in Italia. Pubblicare le intercettazioni soltanto quando c’è il rinvio a giudizio, se da un lato è garanzia per gli indagati, dall’altro genera un enorme vuoto che riguarda proprio quel segmento di informazioni che non possono essere rese di dominio pubblico. Questo sembra essere il vero obiettivo della legge: impedire alla stampa, nell’immediato, di usare quei dati che poi, a distanza di tempo, non avrebbe più senso pubblicare. In questo modo le informazioni veicolate rimarranno sempre monche, smozzicate, incomprensibili.
Quello che mi sento di dire è che governo, magistratura e stampa, in questa vicenda, dovrebbero trovare un terreno comune di discussione, perché di questo si tratta, di riappropriarsi di un codice deontologico che renda inutile il varo di leggi che limitino la libertà di stampa, di espressione e di ricerca delle informazioni. Non è limitando la libertà di stampa e minacciando l’arresto dei giornalisti che si arriva a creare una regola condivisa. E in questa discussione mi sento profondamente coinvolto perché sotto la legge che si vorrebbe far passare, il mio lavoro e quello di molti miei colleghi sarebbe stato notevolmente più arduo se non, in certe sue fasi, impossibile. Se ci fosse stata questa legge non avrei potuto scrivere intere parti di Gomorra, il cui dialogato talvolta è formato da intercettazioni che ho utilizzato molto prima del rinvio a giudizio e che avevano un valore di inchiesta ancor prima che un valore giudiziario.
Mostravano come in certe aree d’Italia, in quel caso a Secondigliano, un omicidio venisse definito “pezzo” i politici fossero chiamati “cavallucci” su cui puntare. Ma ancor più importante, perché come ho detto prima non si tratta solo di descrivere un contesto, quello avrei potuto farlo con parole mie, quelle intercettazioni descrivevano come un sindaco avesse partecipato direttamente a un agguato, mostrando, in questo modo, lo stato di salute di un intero Paese.
Nel Ddl intercettazioni è anche inserito un emendamento, la “norma D’Addario” che regolamenta l’uso delle registrazioni. Seguendo quanto prescritto non avrei potuto registrare molte delle testimonianze che ho raccolto senza l’esplicito consenso del mio interlocutore e che ho riportato in Gomorra; testimonianze che di certo non sarebbero rientrate in quelle eccezionalmente fatte per la sicurezza dello Stato.
Molte vicende non sarebbero mai venute alla luce e benché spesso io abbia omesso i nomi reali e mi sia limitato a raccontare i meccanismi, credo che neppure quello sarei stato in grado di fare, rischiando pene severissime. Quando, non molto tempo fa, ho incontrato un pentito e ho registrato quello che mi ha raccontato, l’ho fatto senza sua autorizzazione e senza sapere quale sarebbe stato l’esito di quell’incontro. Di fatto, se non c’è reato in quello che viene registrato, si rischia molto e questo può pregiudicare anche la lotta alle estorsioni poiché chi ne è vittima e decide di presentarsi microfonato a un colloquio, se l’estorsione non avviene ed è scoperto a registrare, rischia fino a quattro anni di carcere. Tutto questo per dire che togliere la libertà a chi racconta, togliere gli strumenti per capire cosa sta accadendo non è un modo per difendere il diritto delle persone, non è un modo per salvaguardare la privacy.
L’uso delle intercettazioni deve essere regolamentato. Le regole devono essere condivise e affrontate insieme, non imposte. Questa legge rischia di essere, se non verrà profondamente modificata, solo l’affermazione che il potere non può essere raccontato, descritto, ascoltato. In una parola che tutto gli è concesso.
La Repubblica 22.05.10