«L’Italia non è un paese per giovani». «L’Italia è un paese bloccato». Si tratta di affermazioni a metà tra luogo comune e realtà ineluttabile, che la nostra università rappresenta in modo davvero emblematico.
Nel 2007 Salvatore Settis scriveva: «Qualità della ricerca e degli studi e ricambio generazionale nella docenza sono problemi che non stiamo affrontando, che si vanno incancrenendo a ogni giorno che passa». Il Pd, dall’assemblea di oggi, vuole metterli in testa alle proprie priorità. Un’università di qualità serve all’economia dell’Italia, e serve a far incrociare i talenti con le opportunità. Non possiamo accettare che solo il 10% dei giovani con il padre non diplomato riesca a laurearsi. Nel Regno Unito sono il 40%, in Francia il 35%. Non possiamo dirci progressisti se non promuoviamo, con le idee e con i fatti, la mobilità sociale. Ha ragione Irene Tinagli: la diminuzione delle immatricolazioni (-17.000 nell’ultimo anno) è molto preoccupante. I giovani italiani non credono più nell’università come spazio per la crescita professionale e la mobilità sociale. È la fotografia dell’Italia di oggi: una società bloccata, dove i figli ripetono il mestiere dei padri, dove i “capaci e meritevoli” non hanno spazio.
Per un paradosso tutto italiano, i giovani sono difesi solo dal presidente della repubblica e da Rita Levi Montalcini: ciò è inaccettabile. Per riattivare l’energia dei giovani, partiamo dai diciottenni: aiutiamoli a orientarsi, valutando sul modello Ocse-Pisa le università. E attiviamo un Erasmus in Italia: assegniamo a ciascun giovane un credito di studio universale utilizzabile dove può studiare al meglio. Inoltre, stabiliamo un aumento delle tasse per i fuoricorso, costituendo un fondo per i più meritevoli.
I giovani migliori dovrebbero essere spinti a fare ricerca, a restare nell’università. Nell’Italia di oggi ciò è quasi impossibile: da noi i docenti sotto i 30 anni sono soltanto il 2% (in Regno Unito il 13%, in Francia l’8,8%, il 15,2% in Germania), e quelli tra i 30 e i 40 anni sono il 14% (Regno Unito 26%, Francia 22%, Germania 30%). I giovani sono condannati al precariato, con stipendi miseri e nessuna tutela. Eppure, insieme ai ricercatori strutturati, sono loro a tenere in piedi i corsi. Noi chiediamo di aprire subito spazi per i giovani che lo meritano, e regole certe per carriere veloci. La Gelmini mira a creare una nuova generazione di precari e “parcheggia” senza prospettive i ricercatori che, con una protesta giusta, stanno portando quest’emergenza all’attenzione generale.
All’università, come alla società, serve un fortissimo ricambio generazionale. Anche qui i dati sono impietosi: tra i docenti, gli over 50 sono il 56% del totale, contro il 26% in Francia, il 31% della Germania, il 16% del Regno Unito (Sylos Labini-Zapperi, I ricercatori non crescono sugli alberi, Laterza, 2010). Per questo proponiamo: pensione a 65 anni e no al blocco del turn-over, per assumere nuovi docenti. Non è demagogia, ma un segnale vero in una società gerontocratica. I docenti produttivi potranno insegnare a contratto, ma dobbiamo essere concreti: non possiamo parlare di “patti generazionali” senza mai entrare nel merito. Come accade ovunque, e come accadeva anche da noi qualche decennio fa, deve essere possibile “andare in cattedra” a 30 anni. I giovani devono avere più risorse per la ricerca e guadagnare meglio: riduciamo il divario retributivo tra ricercatori e ordinari, aumentando per questi ultimi la parte degli stipendi variabile in base alla qualità del loro lavoro, come ha proposto Roberto Perotti.
Sono queste le cose di cui vorremmo parlare, mentre il governo propone una riforma bluff: dietro la superficie della “meritocrazia” ci sono solo tagli per oltre 1 miliardo di euro che già ora impediscono agli atenei di funzionare. Diciamo al paese la verità: senza investire nella ricerca e nell’università, e senza il coraggio di cambiamenti profondi, resteremo in crisi per sempre.
*responsabile PD Università
da Europa Quotidiano 21.05.10