La gestazione era durata anni. La prima idea fu di Di Vittorio. Lo varò il ministro Donat-Cattin, segnò uno spartiacque storico. Quando in data 20 maggio 1970 entra in vigore la legge chiamata Statuto dei lavoratori siamo nella fase forse più cruenta della vita italiana dopo fascismo e guerra: sono trascorsi solo cinque mesi dalla bomba di piazza Fontana e non più di un anno dalla rivolta degli operai veneti a Valdagno. A Torino grandi scioperi martellano le officine Fiat. Mentre nel paese è ancora vivo il ricordo degli eccidi di Avola in Sicilia e di Battipaglia nel Salernitano, dove la polizia aveva sparato sui braccianti in sciopero, con un bilancio di quattro morti e oltre duecento feriti. La nuova legge è anche una risposta a questi drammi. In realtà era un progetto che veniva da molto lontano: Giuseppe Di Vittorio, da Cerignola, il celebre leader della Cgil, aveva invocato nuove norme a protezione del lavoro fin dall’inizio degli anni cinquanta. Ma bisogna aspettare che la società italiana cambi identità, da paese agricolo a realtà industriale, e che inurbamento e migrazioni facciano crescere nelle officine una nuova forza lavoro, che rivendica nuove libertà e diritti.
La legge ha un titolo piuttosto burocratico: «Norme sulla tutela e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento». Cgil, Cisl e Uil, dette «La Triplice», la considerarono una loro storica vittoria, la maggioranza silenziosa la subì quasi come un oltraggio. In verità la legge ebbe tre padri: nell’iniziativa politica Giacomo Brodolini, socialista, ex sindacalista, ministro del lavoro nel primo governo Rumor (1968); nei contenuti giuridici Gino Giugni, anch’egli socialista, espressione della società civile, presidente della commissione che formulò le norme; sul piano dei risultati concreti Carlo Donat-Cattin, democristiano di sinistra, ministro del lavoro che portò prima il Senato poi la Camera a approvare la legge (con l’astensione dei comunisti). Quasi romanzesca la vicenda di Brodolini che fece della legge una sua personale strenua battaglia. Malato di cancro, ottenne l’ approvazione del consiglio dei ministri nel giugno 1969, morendo pochi giorni più tardi a Zurigo.
Lo Statuto dei lavoratori è stato uno spartiacque fra due diverse condizioni e immagini del lavoro. Non riguardava soltanto gli operai ma furono soprattutto essi a trarne benefici. Prima della legge, erano schiacciati da una mole di regole, potevano essere spiati e sorvegliati, subivano la disciplina del cottimo, subivano licenziamenti collettivi, mentre le nuove norme attenuavano i vincoli del fordismo, garantivano il diritto alla libertà d’opinione, prevedevano partecipazione sindacale nelle assemblee, difendevano il salario unico, abolivano le gabbie salariali, modificavano i meccanismi di inserimento al lavoro, esigevano la giusta causa per i licenziamenti, proteggevano le condizioni delle donne lavoratrici.
Era la più profonda innovazione fra capitale e lavoro, dai tempi del passaggio delle otto ore. Confindustria era ostile (all’inizio). I datori di lavoro più conservatori erano per un boicottaggio. Inoltre si temeva una svolta di destra, per cui Donat-Cattin e il socialista De Martino spinsero per approvare la legge in fretta. Perciò non era tutto oro quel che luccicava, lo stesso Brodolini confidò a Giugni: «Fa in modo che lo Statuto dei lavoratori non diventi lo Statuto dei lavativi». Ma alla fine il provvedimento entrò nel costume, come parte della modernizzazione promessa dal centrosinistra: non è un caso che il 1° dicembre di quello stesso 1970 divenisse legge anche il divorzio. Sulla scena d’Europa si affacciava un’altra Italia.
La Stampa 20.05.10