Ha ragione Reichlin, la crisi finanziaria europea si è incaricata di dimostrare che è la mancata modernizzazione, il principale problema dell’Italia. Con la crescita di paesi come la Cina, l’India, il Brasile, il Sudafrica, il Kenya e moltissimi altri (la più grande uscita di massa dalla povertà nella storia del mondo), l’Europa non è più il centro della storia mondiale. C’è bisogno di più Europa, ma dobbiamo chiudere la forbice tra l’adesione ideale, puramente politica, e la necessità che il nostro Paese diventi europeo anche nei fatti. Converrà perciò abbandonare l’illusione che, tolto di mezzo Berlusconi, tornerà l’età dell’oro. Quello che è avvenuto in questo ventennio non è una parentesi antistorica, un’invasione degli Hyksos. Oggi il punto di vista della Lega (il peso insopportabile di un Mezzogiorno parassita, improduttivo e preda dell’illegalità criminale) è diventato senso comune. Anche in conseguenza del fallimento nel Sud del compito riformatore che si era assegnato il centrosinistra. Ormai un pezzo del Nord vuole separare il suo destino dal Mezzogiorno e il pezzo che rimane non è comunque disposto a tornare alla vecchia Italia. Nel ’94 sono saltate gerarchie culturali durate mezzo secolo. A modo loro, sia la Lega Nord che Berlusconi sono l’espressione di una sollevazione antiburocratica e antistatalista, iniziata nel secolo scorso: la svolta reaganiana in America, quella thatcheriana in Gran Bretagna, quella antisocialista in Germania, Belgio, Scandinavia e Francia e perfino quella anticomunista all’Est. Con questa «cosa», nella versione di casa nostra, dobbiamo fare i conti. La crisi del Pd è anzitutto il frutto di un cambiamento molte volte promesso e molte volte rinviato e contraddetto. E il Pd non ha altra possibilità che quella di provare a conquistare quelle parti di elettorato che si renderanno disponibili con il mutare dei rapporti di forza all’interno del centrodestra, facendo proprie quelle domande, quelle aspirazioni – sul fisco, sulla giustizia, sulle libertà economiche – che esse esprimono e che Berlusconi lascia ancora insoddisfatte. La colpa più grave di Berlusconi non è di aver reso l’Italia «meno democratica», ma di non aver mantenuto nessuna delle sue promesse. Non aveva garantito più liberalizzazioni, più meritocrazia, più crescita, meno tasse, meno sprechi, meno burocrazia? La ragione per cui è nato il Pd non era quella di dare una riposta alle esigenze del Paese? Incalziamo Berlusconi perché faccia quel che ha promesso e, siccome non potrà farlo, facciamolo noi. Sul serio. Quando gli italiani ce ne ridaranno l’occasione…
L’Unità 14.05.10
Pubblicato il 14 Maggio 2010