Sull’orlo del precipizio del fallimento politico, e dell’abisso del disfacimento economico, l’Europa ha infine trovato il coraggio di reagire. Di salvare, attraverso la sua moneta, il capitolo più significativo e palingenetico della sua Storia, dopo le tragedie del Novecento. Non sappiamo se e quanto durerà l’euforia quasi isterica con la quale ieri i mercati hanno salutato l’accordo raggiunto domenica notte all’Ecofin, e poi ratificato dalle decisioni della Bce. Non siamo affatto convinti che questo compromesso tra leader politici e banchieri centrali, per quanto una volta tanto “al rialzo”, abbia sciolto i nodi strutturali dell’integrazione fiscale, della disciplina finanziaria e della stabilità valutaria. I problemi restano. Resta la “zoppìa” di un’Europa che continua a poggiare su pilastri istituzionali squilibrati. Resta l’anomalia di una moneta senza Stato, di un euro orfano di un governo. Ci sarà ancora molto da fare, nella riscrittura delle norme che sovrintendono all’Unione e delle regole che vigilano sulla finanza. Ma intanto, dal momentaneo “happy ending” di questa crisi ci sono almeno un paio di insegnamenti da trarre.
Il primo insegnamento è di natura “tecnica”. Il cordone sanitario più efficace per difendere l’euro non nasce tanto a Bruxelles, con il via libera al piano-monstre di aiuti da 750 miliardi per sostenere i Paesi più esposti al rischio della crisi debitoria. Il vero “scudo spaziale” per reggere l’urto degli attacchi speculativi nasce piuttosto a Francoforte, con il disco verde della Banca centrale europea all’acquisto di “obbligazioni pubbliche e private” nell’Eurozona. Con un colpo di fantasia, e anche una buona dose di eresia, i famigerati “tecnocrati” dell’Eurotower hanno abbattuto un totem che avevano voluto costruire al battesimo del Trattato, per venire incontro a una legittima esigenza tedesca: quella di non regalare ai nuovi membri del Club dell’euro, inaffidabili perché troppo diversi tra loro, un “creditore di ultima istanza” che ne favorisse il “moral hazard”. Cioè l’azzardo morale di accedere alla moneta unica senza accettarne i paletti contabili, nella convinzione che alla fine qualcuno avrebbe riempito comunque i “buchi” di quella dissipazione.
Ora quel tabù è stato in parte violato. Un passaggio difficilissimo per la Bce, costruita sul modello e sull’ortodossia della Bundesbank. Ma per certi versi obbligato, pena la sopravvivenza stessa di Eurolandia. Questo spiega i tormenti all’interno del board, nel weekend di passione durante il quale è maturata questa Rivoluzione Copernicana nel “modus operandi” della Banca centrale. Questo, soprattutto, giustifica la richiesta a tutti gli Stati membri di rafforzare le politiche di rientro dai deficit e dai debiti pubblici. L’Eurotower lo esige con un comunicato. Ma non basterà questo pezzo di carta, a evitare il ripetersi di un’altra tragedia greca, con il pericolo dell’effetto-domino che si porta dietro. Rivedere il Patto di stabilità, a questo punto, è un imperativo categorico. Non solo per i teutonici appassionati di Kant, ma anche per i mediterranei innamorati di Epicuro.
Il secondo insegnamento è di natura politica. Il “crash test” della Grecia, e l’eurodelirio che ne è seguito, confermano due assiomi originari. Uno: come aveva intuito Jacques Rueff nel 1950, l’Europa si farà attraverso la moneta o non si farà. Due: come aveva capito Giulio Andreotti nel 1992, la moneta unica sarà tedesca o non sarà. Questo drammatico “rito di passaggio” dimostra che l’euro, con tutte le sue debolezze, resta l’unica prova dell’esistenza dell’Europa unita, di cui incarna allo stesso tempo il limite e la forza. E dimostra che la Germania, con tutte le sue ruvidezze, resta la grande incognita dell’Europa unita, di cui riflette allo stesso tempo la diffidenza e la potenza. Non sarà affatto facile, per Angela Merkel, reggere il peso delle decisioni assunte domenica notte per salvare una moneta che i tedeschi, nonostante tutto, continuano ad accettare solo come pura estensione del marco. Sulla pelle della Cancelliera, brucia il sondaggio Ernst&Young che vuole l’86% dei suoi concittadini contrari al salvataggio della Grecia e il 34% degli imprenditori convinti che l’eurozona si sfascerà presto. Brucia l’idea che, attraverso gli aiuti agli indisciplinati Paesi “latinos” generosi nei salari pubblici e nelle pensioni private, la Germania possa diventare “il Bancomat d’Europa”. Brucia, soprattutto, la cocente sconfitta elettorale in Nordreno-Westfalia, dove la disoccupazione è già al 9%, dove è stato massicciamente applicato lo strumento del “Kurzarbeit” che tutela i posti di lavoro a spese dello Stato e dove quindi è più acuto il timore che un aiuto ai “maiali” d’Europa sottragga risorse ai poveri cristi di Germania.
“Madame Non”, come molti tedeschi vorrebbero che fosse sempre la Merkel, ha detto qualche no decisivo, due giorni fa. Per esempio all’istituzione di un Fondo monetario europeo, che sarebbe stato troppo per un Paese il cui rigore di bilancio è scolpito nella Costituzione. Ma ha detto comunque un sì storico, a un gigantesco piano di aiuti e ad una radicale revisione operativa della Bce. Ha assunto sulle sue spalle una responsabilità politica enorme, di fronte all’Europa irresoluta e di fronte al suo popolo sfiduciato. Gliene va dato atto. Ma niente è per sempre. La Germania ha deciso di salvare l’euro perché ha capito, dati sull’export alla mano, che in questa fase avrebbe subito più danni dal suicidio della moneta unica che non dalla sua sopravvivenza. Nessuno ci garantisce che in un futuro prossimo quel Paese, già fortemente orientato nelle sue strategie commerciali verso altre aree del mondo come la Russia e la Cina, non cambi strategia. E magari ascolti gli economisti duri e puri come Joachim Starbatty dell’Università di Tubinga, che premono per dividere l’euro in due monete diverse, una per il Nord e una per il Sud. La Germania, oggi più che mai “Europe’s Engine” secondo una celebre copertina dell’Economist di fine marzo, va aiutata a ritrovare l’euro-fiducia smarrita. I tedeschi, turandosi il naso, un passo l’hanno fatto. Ora tocca a noi “Pigs” fare altrettanto, a colpi di serie scelte politiche e di vere riforme economiche.
La Repubblica 11-05-10