Diciamo due cose chiare e semplici, modeste, da gente che lavora, a proposito dell’affare Scajola e delle sue ripercussioni. La faccenda, certo, è ancora agli inizi: potrebbe fermarsi nel solito vicolo cieco o potrebbe andar lontano, magari innescandosi con altre questioni, altri fenomeni.
Certo, dopo parecchio tempo di palude punteggiata dalle trovate del presidente del consiglio, qualcosa sembra misteriosamente ripartito, qualcos’altro rimesso in gioco. Così, di punto in bianco.
Non sono cose tutte né del tutto chiare; né tantomeno allegre.
Ma ci sono. Ricordiamole in ordine sparso. Il disagio di Fini e dei “finiani”; il malessere in Grecia, scoppiato tragicamente senza dubbio perché ci sono i provocatori e i teppisti, ma anche perché la gente comune non ci sta a pagar tutta e soltanto lei il prezzo d’una crisi sulla quale altri hanno guadagnato. L’ambigua vittoria dei conservatori in Inghilterra, che se vorranno governare avranno bisogno dell’appoggio di una specie di new link. E magari lo strano caso della conferenza di New York sul nucleare, dove Ahmedinejad è stato circondato dall’ostracismo internazionale e il papa applauditissimo: solo che hanno detto più o meno le stesse cose. Insomma, non è che per caso comincia a succedere qualcosa di serio, sul serio? La sera del 5 maggio, ad Annozero di Santoro, il direttore di Libero Maurizio Belpietro ha osservato che, se in Italia la gente evade, dipende anche dal fatto che in un certo senso ci è costretta: sono troppe, sono troppo alte.
Si può dargli torto? Certo non proprio e non del tutto. Ha delle ragioni. Ma nel suo discorso mancava qualcosa.
Mancava, ad esempio, una riflessione che introducesse noialtri gente comune, che viene informata (non sempre bene) da tv e giornali, perché succede sempre più spesso che ci siano studenti figli di operai, d’impiegati, di funzionari che pagano per intero le tasse universitarie e studenti figli di commercianti e d’imprenditori che ne sono in tutto o in parte esentati in quanto il reddito denunziato dalle loro famiglie è talmente basso da consentir loro di godere di tale agevolazione.
Gli italiani “popolo di evasori fiscali”? No certamente: ha ragione Belpietro. Dev’esser chiaro che la maggior parte dei cittadini italiani le tasse le paga fino all’ultimo centesimo: tutti i salariati, gli stipendiati, insomma i dipendenti pubblici o privati, le categorie a reddito fisso. Cittadini-modello: magari non tutti vorrebbero esserlo, magari invidiano i commercianti, i liberi artigiani, i professionisti, gli imprenditori, che possono fare “creste” più o meno massicce alle rispettive denunzie fiscali. Noialtri non possiamo. Dico noi perché anch’io, come insegnante, appartengo a una di quelle categorie.
Ma io sono per la verità un caso un po’ particolare. E con me ce ne sono migliaia. Oltre a fare il professore, io faccio anche lo scrittore, il conferenziere, il giornalista.
Alla fine dell’anno ho un certo reddito extra, oltre a quello dello stipendio. Anch’esso totalmente e inesorabilmente tassato: editori ed enti che m’invitano a parlare in pubblico hanno tutto l’interesse a rendicontare fino all’ultimo soldino quel che mi danno, e quindi io sono in una botte di ferro. Chiodata. Non posso evadere.
Ne sono lieto? Ohimè, non del tutto. È questo il punto. Quando alcuni anni fa un ministro di centrosinistra disse che «pagare le tasse è bello», molti risero e molti altri s’indignarono. È comprensibile.
Ma, concettualmente, aveva ragione lui. Le tasse sono necessarie: e con le tasse ci si pagano tante cose belle, utili, necessarie. Se vivessimo in un paese ben governato e in una società civile sana, saremmo orgogliosi di pagare le tasse. Non lo siamo perché viviamo in un paese dove il capo del governo elogia gli evasori e chi paga le tasse si sente fesso e si vergogna. Che bello riuscir sul serio, dopo tre rivoluzioni mancate o fallite o riuscite a metà (Risorgimento, Fascismo, Resistenza), farne una vera e riuscita: quella che insegnasse ai nostri ragazzi che quel che è pubblico appartiene a tutti (i ragazzi, e non solo loro, oggi sono convinti che non appartenga a nessuno: viaggiate sui treni e ve ne accorgete), che le tasse vanno pagate tutte e da parte di tutti, e in proporzione del loro rispettivo potere economico.
Tra qualche mese, i giornali pubblicheranno in ogni città l’elenco dei “Paperoni”. Probabilmente, io sarò fra i “Paperoni” di Prato: perché supero, sia pure di poco, i 100.000 euri all’anno: molti, in un paese dove pare che la maggior parte non arrivi ai 20mila. Il problema è che le classifiche dei “Paperoni” si fanno sui redditi denunziati, non su quelli effettivi; e solo sui redditi, non sui patrimoni.
Quest’estate, lancerò a Prato un’iniziativa: la cena in piazza dei “Paperoni”. Così ci guarderemo in faccia: e, soprattutto, conteremo gli assenti, quelli che denunziano meno di 100.000 euri in una delle città più ricche d’Italia. Vedrete quanta gente mancherà in piazza, e quanto ridicole saranno certe assenze. Vedrete quanti portatori di social card hanno villino e fuoriserie. E badate che si parla solo di redditi. Ma mica basta. I ricchi, non sono ricchi solo per i redditi.
E allora? La corretta risposta a Scajola – e a Belpietro – l’ha data, proprio su Europa del 5 maggio, Valter Vecellio. Serve l’anagrafe patrimoniale. Esatto. Serve l’anagrafe patrimoniale. Lo dico anch’io. Parola di reazionario ammalato di senso dello stato. Allora, caro Pd, che fai? Ti fai scavalcare a sinistra da un vecchio professore estremista di destra? Vergogna!
da www.euroapquotidiano.it