Non è sufficiente mettere un «cerotto» sulle ferite aperte dell’economia greca, come si apprestano a fare i leader europei nei prossimi giorni, concedendo ad Atene un prestito troppo a lungo rinviato. Non bastano parole e documenti solenni a dare ai guai di Atene la «risposta forte» auspicata dal presidente degli Stati Uniti d’America Barack Obama. I responsabili delle maggiori economie del pianeta sono troppo spesso vittime della propria retorica, troppe volte hanno parlato in maniera non sufficientemente meditata di crisi superata; troppe volte hanno apposto firme solo apparentemente rassicuranti.
In realtà appare più appropriato supporre che il virus all’origine di questa crisi abbia subito una nuova mutazione: sorto nel 2007 in un segmento secondario della finanza americana, quello dei mutui subprime, è mutato la prima volta nell’autunno del 2008 provocando una sensibile caduta di produzione e occupazione in tutti i Paesi ricchi dopo aver devastato la finanza internazionale e distrutto una parte non piccola del capitale finanziario mondiale. Ora sembra mutare nuovamente forma e percorso e ritornare, in maniera più aggressiva, a colpire quella che è forse la componente più sensibile della finanza mondiale, ritenuta fino a poco tempo fa intoccabile e invulnerabile: il «debito sovrano», ossia i titoli emessi in prima persona dai principali Paesi del mondo. La Grecia è un caso limite di debolezza in quanto Atene ha seguito politiche irresponsabili e platealmente truccato i dati per poter essere ammessa nella zona euro.
Un prestito europeo alla Grecia può forse servire a guadagnare tempo, anche se, come ha sottolineato Franco Bruni su queste colonne alcuni giorni fa, quella che ora viene proposta pare una soluzione malaccorta e troppo «violenta» in quanto è irrealistico chiedere a qualsiasi Paese un «rientro» da una situazione debitoria così pesante in soli tre anni. Servono altre cure, di natura strutturale, che riguardano il mercato finanziario internazionale e i Paesi che su questo mercato contraggono (e normalmente ripagano) debiti. Tali cure devono rivolgersi in primo luogo al funzionamento dei mercati. La Grecia sarà pure una grande peccatrice finanziaria, ma non è giusto che chi l’ha aiutata a peccare e ha tratto vasti guadagni dal suo peccato possa godersi tranquillamente tali guadagni. Il pensiero va naturalmente ad alcune grandi organizzazioni finanziarie, soprattutto americane che sembrano aver cancellato ogni senso di lealtà verso il cliente: hanno aiutato la Grecia a raccogliere prestiti emettendo titoli di debito, e subito dopo hanno scommesso sulla loro perdita di valore.
Senza neppure scomodare l’etica, sui mercati è essenziale una maggiore coerenza e continuità di comportamenti. È inoltre opportuno che le agenzie di rating, che svolgono un indispensabile compito di valutazione indipendente, seguano rigide procedure di comunicazione: in questi giorni i mercati sono stati sconvolti da annunci, che risultano francamente irresponsabili da parte di tali agenzie sul probabile declassamento dei debiti di alcuni Paesi. Una regolazione quasi immediata del loro comportamento sembra inevitabile per attenuare le convulsioni dei mercati. In questi mercati, un ruolo fondamentale spetta al debito pubblico. Si deve constatare, come risulta da un recentissimo studio della Banca dei Regolamenti Internazionali, che il livello di tale debito è destinato a salire nei prossimi anni e decenni in tutti i Paesi ricchi anche per effetto dell’invecchiamento della popolazione che porta a un aumento della spesa pensionistica e della spesa sanitaria. Occorrono forse misure drastiche di contenimento della spesa (come indicato dagli autori dello studio, Cecchetti, Mohanty e Zampolli) o forse l’accettazione di un tasso leggermente più elevato di inflazione, sempre che la si riesca a controllare; in Europa, in ogni caso, è indispensabile riscrivere con clausole più larghe il patto di stabilità che oggi appare perfino ridicolo.
In un più generale ambito mondiale, il livello strutturale di rischio di tutti i debiti pubblici, e più in generale di tutti gli impieghi finanziari, appare cresciuto dopo l’episodio greco. Queste variazioni strutturali delle finanze pubbliche si accompagnano a un crescente malessere politico: pressoché tutti i governi dei Paesi ricchi sono di fronte a situazioni difficili che riescono a controllare con sempre maggior fatica, a un malcontento di fondo che si esprime con la frammentazione del quadro politico tradizionale (come in Gran Bretagna, dove la formula del bipolarismo è saltata con le elezioni dell’altroieri, o in Belgio dove il parlamento si è sciolto in un clima di confusione) e con una generale fatica dei governi a mettere in pratica qualsiasi tipo di riforma (come in Italia). Instabilità politica e malessere economico sembrano così andare di pari passo e minacciano di soffocare il nostro futuro. Speriamo che abbia ragione il presidente Napolitano e che le vicende greche e il profondo tonfo delle Borse mondiali degli ultimi due giorni siano soltanto il «colpo di coda» della crisi mondiale. L’errore maggiore che possiamo fare è quello di cercare di affrontare questo «colpo di coda» soltanto con misure tecniche immediate anziché curarne le cause di fondo di tipo economico, sociale e politico.
da www.lastampa.it