Con il passare delle settimane, si è diffusa un’opinione malevola sulla Germania di Angela Merkel e sul suo modo di affrontare la crisi greca. Se ci sono state tante esitanti lentezze nel decidere, se l’aiuto di cui Atene ha bisogno è passato in due settimane da 45 miliardi di euro a oltre 100, se altri Paesi barcollano (Portogallo, Spagna) è perché il governo tedesco non sarebbe capace né di sguardo lungo, né di mosse rapide. Perché dipenderebbe dai sondaggi d’opinione, e si sentirebbe molto più minacciato dall’imminente voto in Renania-Westphalia che dal crollo di Atene e perfino d’Europa. Angela Merkel non avrebbe la stoffa di un grande leader che trascina, convince i connazionali, pensa in grande come seppero farlo Adenauer, Brandt, Kohl.
Impaurita dalla crisi, e dalla prospettiva di finire nel gorgo assieme ai più deboli dell’Unione, il Cancelliere ha infine preso la decisione di soccorrere Atene e di prendere in mano il destino dell’euro. Ma lo ha fatto con fatica, quasi a malincuore, pensando e dicendo che in fondo fu sbagliato imbarcare nell’euro Paesi poco affidabili. Una sorta di malinconia minaccia di sommergere i governanti tedeschi, fatta di paura dell’impopolarità, di diffidenza istintiva verso il mondo esterno, e di quella singolare forma d’orgoglio che li spinge a rifiutare, in Europa, l’esercizio di una guida politica decisa. Il cancelliere Schmidt lo ripeteva spesso, con l’altezzosa modestia che lo caratterizzava: «Geopoliticamente pesiamo e vogliamo pesare quanto la Svizzera». La storia della doppia crisi greca ed europea è, al contempo, la storia della difficile uscita della Germania dalla malinconia. Della lenta, insicura gestazione di un Paese che accetta di guidare l’uscita dalla crisi ricominciando a credere nell’Europa.
Non è un’impresa semplice, perché la malinconia ha radici possenti e antiche. In parte è un’accidia comune a molti europei: di continuo, l’Unione li costringe a toccare con mano il doppio limite che essa fissa alla sovranità degli Stati e alla sovranità del voto popolare, quindi alle democrazie nazionali. In parte è un’accidia specifica che suscita nei tedeschi il desiderio di ritrarsi, di occuparsi prioritariamente dell’ordine in casa propria. Non tutte le critiche mosse alla Merkel sono errate, in questo quadro. Spesse volte il breve termine e i sondaggi sono per lei più importanti della visione lunga: due terzi dei tedeschi osteggiano i salvataggi di Paesi in difficoltà, e questo conta nel suo giudizio. A ciò si aggiunga un senso di superiorità morale mal dissimulato: nei giornali come nei discorsi politici, i Paesi deficitari sono chiamati peccatori, e peccato è il nome dato all’indisciplina di bilancio. Intanto cresce in Germania la stanchezza d’Europa: non è irrilevante che il Cancelliere, provenendo dall’Est tedesco, sogni come altri europei orientali (come il ceco Vaclav Klaus ad esempio) una sovranità nazionale che si condivide avaramente. Alcuni difetti tedeschi sono difetti di molti politici europei: la fiducia nei mercati e nelle agenzie di rating non pare diminuita, malgrado la crisi del 2007-2009. Altri difetti sono tedeschi: fra questi la nostalgia del marco, non estinta.
Ma la Germania è anche un Paese che ha appreso l’arte di uscire dai malesseri scommettendo prima di altri sull’Europa e sulla limitazione delle sovranità. I suoi politici più sapienti hanno sempre saputo che nessuno spleen nazionale è superabile, se non si va alle sue radici e non lo si combatte con la costruzione europea. Non stupisce che chi in questi giorni ha più lavorato in questa direzione sia un uomo politico che contribuì alla nascita dell’euro, dopo la caduta del Muro: Wolfgang Schäuble, per anni considerato il delfino di Kohl, oggi ministro delle Finanze, medita da decenni sulle paure tedesche e su come queste paure possono, attraverso l’Unione, equilibrarsi e calmarsi.
Vale dunque la pena risalire indietro nel tempo, se si vuol capire la Germania, e rievocare il cammino della moneta unica. Un cammino iniziato prima della riunificazione. L’appello del partito democristiano all’unione monetaria risale al 1984. Nel 1988, il deputato Cdu Gero Pfennig annuncia: «I francesi hanno cominciato una trattativa con noi: la sicurezza militare contro la sicurezza monetaria». Dopo l’89 il progetto si affina, e se l’euro vede la luce lo si deve a Kohl e al francese Mitterrand: alla loro tenacia, alla resistenza che ambedue oppongono a tutti coloro che temono il sacrificio delle monete nazionali.
Il sacrificio era duro soprattutto per la Germania, uscita dall’ultima guerra con una sovranità dimezzata, con un Paese diviso, con lo sguardo del mondo puntato non sempre benevolmente sulla sua nascente democrazia. Il marco era divenuto lungo gli anni l’equivalente della bandiera classica, che i tedeschi non potevano e non volevano più sventolare con la baldanza di prima. Il patriottismo si condensò nell’icona del marco. Un patriottismo non autarchico, ma assai fiero della propria forza.
Si può dunque immaginare cosa rappresentò, per la nazione tedesca, rinunciare nel 1999 alla sovranità monetaria. La riunificazione divenne legittima grazie a questa rinuncia, e Mitterrand non esitò a presentarla come laccio che imbrigliava il nuovo colosso tedesco. Una visione che la classe dirigente tedesca accettò, ma a denti stretti. Una parte della socialdemocrazia scalpitava. La Banca centrale tedesca resistette fino all’ultimo.
È il motivo per cui i più europeisti in Germania, da Kohl a Schäuble, puntarono sulla moneta unica ma vollero completarla con un potere politico europeo. L’euro non doveva essere che un inizio: proprio perché la rinuncia al marco era stata una tribolazione, e perché in caso di crisi future avrebbe potuto suscitare nei tedeschi risentimenti e disillusioni, i governanti tedeschi si aspettavano dall’amicizia con Mitterrand qualcosa di più fortemente europeo: una democratizzazione delle sue istituzioni, un potere più vasto dell’Unione. Il massaggio era chiaro: una moneta senza Stato poteva affermarsi, ma alla lunga non avrebbe dato né pace ai tedeschi, né stabilità all’Europa. L’euro aveva un difetto grave: era visto come un armonioso approdo finale. Quello che allora pareva impensabile – la bancarotta di uno Stato – non era contemplato, così come non era contemplato l’esplodere nei tedeschi del risentimento. La moneta senza politica fa oggi fallimento.
Fu in quell’epoca, nel 1994, che Schäuble elaborò un piano assieme a Karl Lamers, consigliere di politica estera. In esso si preconizzava l’istituzione, accanto all’euro, di un’unione politica ristretta e potente. In particolare, Berlino proponeva a Parigi la messa in comune delle forze militari, in modo che anche la spada, oltre che la moneta, divenisse sovrannazionale. «In nessun caso siamo disposti ad accettare che la nave più lenta arresti lo sviluppo dell’Unione», disse Kohl in difesa del piano. Nel testo Schäuble scriveva: «Difendere se stessi è il nocciolo duro di qualsiasi sovranità. Questo deve valere per gli Stati dell’Unione europea: solo in comunità essi possono mantenere la propria sovranità».
Il piano Schäuble-Lamers fallì per colpa della Francia. La risposta di Balladur, premier conservatore di Mitterrand, fu negativa. Sarkozy, allora portavoce del governo, accusò i tedeschi di «inaudita brutalità» verso i Paesi non invitati nel «nucleo stretto». Non era la prima volta che Parigi bloccava sul nascere un progresso decisivo dell’Unione. Era già accaduto quando venne affossata, nel 1954, la Comunità europea di difesa.
Qui hanno la loro radice le nuove ansie della Germania, le sue nuove diffidenze verso l’Europa. Qui la forza frenante che s’impersona nella sua Corte Costituzionale. Qui la scarsa leadership europea che esercita Angela Merkel. Perché la vecchia scommessa di Schäuble riprenda il suo cammino occorre non solo che la Germania ricominci a pensare l’Unione, ma che tutta l’Europa – Parigi in testa – ripensi se stessa e le difficoltà tedesche. Le grandi crisi sono l’occasione perché questo possa accadere.
La Stampa 03.05.10