Con il manganello in una mano e il pugnale nell’altra, il partito dell’amore ha lanciato la stagione delle vendette. Obiettivo Gianfranco Fini e i suoi. Tutto scontato e avvilente come sempre. Ogni mattina il Giornale di famiglia, rovistando nella spazzatura, offre una variante del linciaggio al presidente della Camera.
Con notevole faccia di tolla, come si dice dalle sue parti, il premier finge di dissociarsi. Lo stesso Giornale, giorni fa, annunciava guarda caso che le epurazioni sarebbero cominciate da Italo Bocchino: «Sarà il primo a perdere la poltrona».
Puntuale è arrivato il siluro al vicepresidente del gruppo parlamentare del Pdl, che si è dimesso, con gesto inusuale. Con gesto ancora più inusuale, ha denunciato le pressioni personali di Berlusconi. Il presidente del consiglio l´avrebbe chiamato al telefono per dissuaderlo dal partecipare come ospite a Ballarò, proferendo minacce del tipo «farai i conti con me» e «io t´infilzo». A dar retta a Bocchino insomma avremmo un capo del governo che parla come un boss della ´ndrangheta. E meno male che Gomorra e la Piovra «danneggiano l´immagine dell´Italia all´estero». Ma a parte lo stile, stavolta c´è un enorme problema di sostanza: alla prima prova di confronto pubblico, il Partito del Popolo delle Libertà dimostra di essere peggio di una caserma. Chi non è d´accordo col Capo è fuori. Questo, oggi, dimostrano lo strappo di Fini e il caso Bocchino: nel Pdl c´è un enorme problema di democrazia interna. Era ovvio, nella dimensione del pensiero unico berlusconiano che prevede il consenso, predilige l´assenso, ma non può mai tollerare il dissenso.
C´è qualcosa di irrazionale, ma diciamo pure di follemente umorale, nella reazione del premier alle mosse di Fini. Del tutto prevedibili, da settimane, mesi e forse anni. Gianfranco Fini fa politica da una vita, ha vent´anni meno di Berlusconi, guarda avanti e vede una destra «normale», europea. Quindi, si muove di conseguenza. Non c´è quasi nulla di personale nella sua ribellione e questo rende molto efficaci gli argomenti del presidente della Camera. Berlusconi non fa più politica da anni. E´ soltanto una macchina elettorale. Al principio aveva una vaga idea di cambiare l´Italia, in qualche modo. Ma, l´ha abbandonata da tempo. Le riforme, promesse da quindici anni, sono ridotte a uno slogan da sfoderare a ogni vigilia elettorale e da rimettere subito nel cassetto il giorno dopo l´incasso di voti.
Le uniche cose che continuano a eccitare Berlusconi, al di là di vicende private, sono le vendette sui magistrati sotto forma di legge e l´ascesa al Quirinale, impossibile alle condizioni attuali. La totale assenza di un progetto politico qualsiasi da parte del leader si riflette sul partito. Il Pdl è più di plastica e più «personale» di quanto non fosse Forza Italia. Alla fine, nel partito azienda, per anni si sono confrontate anime diverse: gli ex democristiani alla Pisanu, gli ex craxiani, i laicisti radicali, i liberali storici come il professor Martino. Eppure si trattava di un partito inventato di sana pianta nelle riunioni ad Arcore, con i dirigenti selezionati da Marcello Dell´Utri a partire dai quadri di Publitalia, nato intorno al solo slogan «Berlusconi for president». In definitiva, una protesi del leader.
Il Pdl nasce invece come «partito federale», dalla fusione di Forza Italia e An, con due fondatori e, in teoria, un´ampia varietà di posizioni. Tuttavia si è rivelato paradossalmente assai meno libero e assai più anti-democratico di Forza Italia. I nuovi gerarchi importati da An, come Gasparri e La Russa, o presi sul mercato politico, come l´ineffabile ex mangiapreti Capezzone, si sono segnalati per un servilismo superiore a quello dei vecchi cortigiani del partito azienda. Neppure nei palazzi di Mediaset il capo aveva mai ottenuto una simile unanimità. Fedele Confalonieri o Gianni Letta, al confronto, sembrano guerriglieri.
Quanto poteva resistere in questa gabbia uno come Gianfranco Fini? Due anni gli saranno già parsi un´eternità. La ribellione di Fini a Berlusconi è il fatto più ovvio accaduto nella politica italiana negli ultimi anni. Com´è accaduto allora che soltanto Berlusconi e la sua corte ne siano rimasti sorpresi, al punto da annaspare oggi fra lagne puerili, maldestre vendette e grottesche campagne a mezzo stampa? Quale livello di dilettantismo politico, narcisismo e mitomania, allignano dunque nella banda che governa i destini del Paese? Fini pone questioni politiche serie, Berlusconi risponde con slogan. Ridotti come siamo, vinceranno sempre gli slogan. Chissà però a quale prezzo.
La Repubblica 30.04.10