Nel martedì nero dei mercati si consuma una partita di poker mortale tra gli Stati e i mercati. C’è una posta in gioco, ed è decisiva: è la sopravvivenza dell’euro, che tra le macerie del Partenone rischia di crollare sotto i colpi della speculazione. C’è un giocatore, ed è risolutivo: è la Germania, che con una strategia nazionalistica rischia di accelerare la fine dell’Unione monetaria.
Sembra un’altra “tempesta perfetta”, quella che si sta abbattendo sulla Grecia e sull’Europa, sulle Borse e sui bond. Evidentemente non sbagliava il Financial Times, quando all’inizio di febbraio aveva avvertito il mondo: attenzione, gli hedge funds hanno pronti in canna 8-10 miliardi di dollari di posizioni a breve, pronte da usare per la scommessa sul collasso debitorio dell’eurozona. L’attacco è partito. E l’effetto-domino non solo è possibile, ma diventa probabile. Questo bagno di sangue costato 160 miliardi di euro ci insegna due lezioni fondamentali.
La prima lezione. I mercati puntano qualcosa, lassù in cielo. Come sempre gli sciocchi guardano il dito e non vedono la luna. Il dito è la Grecia. Un Paese ormai al default. L’ulteriore downgrading del suo debito trasforma i titoli di Atene in “spazzatura”. Il governo Papandreou non ha più scampo, precipitato com’è nella micidiale “spirale mercatista”. L’indebitamento viaggia verso il 15% del Pil. Il rendimento sui bond a due anni richiesto come “premio di rischio” sfonda il tetto del 13%. Secondo le banche d’investimento americane, è il più alto al mondo sul titoli a breve termine. Più di quello dei titoli dell’Argentina (8%) e del Venezuela (11%). In queste condizioni, più la Grecia cerca risorse sul mercato, più stringe il cappio intorno al collo della sua finanza pubblica. Più cerca di salvarsi, più finisce per soffocarsi. Era tutto previsto. E chi oggi finge di piangere, versa lacrime di coccodrillo.
Ma nella logica spietata degli speculatori Atene è un falso obiettivo. Quello vero, cioè la luna che non stiamo vedendo, è immensamente più grande. Si chiama euro. Nel piatto, al tavolo verde in cui si combattono gli stati e i mercati, c’è l’Unione monetaria. Questo dice l’offensiva già partita contro il Portogallo. Un Paese che segue lo stesso, inevitabile destino della Grecia. Il rating del suo debito è già stato declassato. Il rendimento dei suoi titoli decennali è già schizzato oltre il 5%, e il premio di rischio richiesto dai mercati ha fatto impennare lo spread sui titoli tedeschi fin quasi ai 70 punti base. È vero che il governo di Lisbona conta su un deficit pari “solo” al 9,4% e su un debito “limitato” al 77% del Pil. Ma è anche vero che sconta una crescita nulla e una competitività bassissima. In altre parole: il Portogallo è la prossima vittima sacrificale.
Ma fin qui saremmo al default di due economie periferiche dell’eurozona. Il disastro può cominciare subito dopo. Tragedia greca, fado portoghese, e in sequenza dramma mediterrraneo. Nella lista nera degli speculatori sono già iscritti Spagna e Italia. Le prime tensioni all’asta dei Bot di ieri sono un campanello d’allarme molto preciso. Ma qui il quadro cambia radicalmente. “Pigs” o non “Pigs”, stiamo parlando della terza e della quarta economia di Eurolandia. Paesi considerati “too big to fail”, cioè troppo grandi per fallire perché “too big to bail out”, cioè troppo grandi per essere aiutati. Ma è chiaro che, se e quando toccherà a Madrid e a Roma, saremmo già a discutere di un altro mondo e di un’altra Europa. Uno spazio politico ed economico, cioè, nel quale l’euro come è stato fondato nel ’98 e come lo abbiamo conosciuto in questi dieci anni non esisterà già più. È questa la luna, che la speculazione ha preso di mira. I mercati stanno scommettendo sul collasso dell’Unione monetaria. E la notizia è che stanno vincendo.
E qui sta la seconda lezione. I mercati stanno vincendo perché gli stati stanno sbandando. E un Paese, soprattutto, sta sbandando più degli altri. L’asse franco-tedesco che ha guidato l’Europa nei momenti cruciali è crollato. Lo spirito di Maastricht, pur con i suoi parametri “stupidi” o intelligenti che fossero, unì a suo tempo Kohl e Mitterrand mentre oggi divide la Merkel dal resto del Continente. Il tracollo greco, con gli euro-deliri innescati dal piano di aiuti male e forse mai digerito dai tedeschi, sta disvelando l’altra faccia della Germania. Una nazione ripiegata su se stessa e guidata dal suo esclusivo interesse nazionale. Nella tempesta perfetta di questi mesi la posizione tedesca è “coerente ma sbagliata”, come ha scritto a metà marzo Wolfgang Munchau. Per ragioni costituzionali, prima ancora che per opzioni politiche, punta alla stabilità dei prezzi e alla disciplina di bilancio. Dunque non vuole sentir parlare di aiuti. L’86% dei tedeschi è contrario al prestito da 8,4 miliardi di euro alla Grecia che competerebbe alle casse federali secondo l’accordo firmato all’eurogruppo due domeniche fa.
Al contrario di quanto accadde nei momenti più belli della storia tedesca degli ultimi due decenni (dalla riunificazione Est-Ovest in poi) la Germania di oggi affronta le sue responsabilità verso l’Europa con un approccio egoistico e unilaterale. Il paradosso di queste settimane di crisi sulla Grecia e sui mercati è che ogni decisione comune è stata condizionata dal governo di Berlino non in base all’enormità della posta in gioco, l’unione monetaria come fattore di stabilità internazionale, ma a una scadenza elettorale come fattore di stabilità interna: il voto in Nord Reno-Westfalia del 9 maggio prossimo. Persino il vertice europeo convocato d’urgenza ieri, in pre-default della Grecia e in pieno collasso dei mercati finanziari, è stato posposto a questo appuntamento tutto “domestico”. Il governo Merkel, spostato a destra dai liberali di Guido Westerwelle, non può e non vuol dare alla sua opinione pubblica l’impressione di cedere ai soliti “latinos”, cioè i Paesi lassisti e irresoluti del Club Med.
In realtà, questa volta, la vera irresponsabilità non abita nelle cancellerie dei “Pigs”, ma piuttosto nella cancelliera di Berlino. Con il suo atteggiamento da “europeista riluttante”, la Germania ha fornito armi formidabili alla speculazione arrembante. Come insegnano le disastrose esperienze dei primi Anni ’90, gli Stati nazionali hanno una sola possibilità di resistere alle aggressioni dei mercati finanziari: agire con una sola testa e un solo braccio, e costruire un muro granitico intorno alla propria economia e alla propria valuta. Quando questo non accede, come successe poco meno di vent’anni fa alla sterlina e alla lira, si fa la fine degli oriazi e dei curiazi (per ripetere un’efficace definizione dell’epoca di Carlo Azeglio Ciampi). È quello che rischia di ripetersi anche oggi. Se Eurolandia non è in grado di darsi regole uguali e condivise per la disciplina dei conti pubblici, la stabilità dei prezzi, la competitività dell’economia, allora l’euro alla lunga non può reggere.
Gli speculatori di tutto il mondo lo capiscono, e per questo azzannano come una muta di cani gli esemplari più deboli del branco. I governanti e i cittadini tedeschi lo temono, e per questo sembrano già proiettati su un’idea “altra” dell’eurozona. Non più un’Unione allargata a 16 Paesi, con una moneta unica che non può contenere né esprimere la forza di nazioni sovrane troppo diverse tra loro. Ma un’Unione ristretta solo a quei Paesi che accettano norme comuni sul rigore contabile e il controllo dell’inflazione. In questo scenario non avremmo più una moneta unica, ma due. Un euro di serie A per i Paesi del Nord a maggiore virtù fiscale, e un euro di serie B per i Paesi del Sud a minor tenuta finanziaria. Inutile dire dove finirebbe l’Italia, a sua volta spaccata tra una ricca Padania e un depresso Mezzogiorno. Economisti tedeschi e banchieri anglosassoni come Taylor Martin lo hanno teorizzato apertamente, trovando addirittura un nome alle due nuove valute: il “neuro” e il “sudo”. Sembra un gioco, ma non lo è affatto. I governi d’Europa non l’hanno capito. Continuano a scherzare sotto il vulcano.
La Repubblica 28.04.10