La Grecia deve fare i compiti a casa prima di dar l’esame e ricevere gli aiuti». Così, in tono ironico e sprezzante, si è espresso ieri il leader liberale e ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle a proposito del nuovo veto che ha ancora una volta bloccato la concessione di un prestito europeo al governo di Atene. Come talvolta succede, la realtà è quasi l’esatto contrario: è il ministro Westerwelle a dover fare dei difficili compiti a casa. Il 9 maggio, infatti, nelle elezioni regionali del Land del Nord Reno – Westfalia i liberali di Westerwelle potrebbero non superare la barriera del 5 per cento. Gli equilibri politici nazionali e non solo quelli locali ne potrebbero uscire alterati.
Il governo tedesco, quindi, parla di principi ma guarda alle urne, si appella agli ideali della corretta amministrazione ma punta prima di tutto a far bella figura con i 15 milioni di elettori di una delle regioni più importanti della Germania. Non è la prima volta che nobili ideali coprono più prosaici interessi di bottega e non saranno certo gli italiani a scandalizzarsi troppo.
Superata, o comunque archiviata, la prova elettorale, la Germania dovrà aiutare la Grecia; anche perché se non aiuta la Grecia potrebbe procurare danni gravissimi alla Hre, un’istituzione finanziaria tedesca recentemente nazionalizzata per sottrarla al fallimento, che ha partecipato alle rischiose operazioni della finanza internazionale sul debito greco e potrebbe essere detentrice di un congruo pacchetto di tale debito. Per non dare qualche soldo alla Grecia si rischia quindi un possibile effetto devastante su tutto il mondo finanziario tedesco.
Nel frattempo, si lascia via libera alla caccia grossa della finanza internazionale che ha nel mirino il Portogallo, altro Paese debole. Le sue condizioni sono sensibilmente meno gravi di quelle della Grecia ma il suo «rischio Paese» è stato, per analogia, pesantemente rivisto all’insù dai mercati. E intanto, sempre per analogia, qualcosa si muove al rialzo anche sul rischio spagnolo. Portogallo, Grecia, Spagna: dei quattro paesi a rischio che compongono l’acronimo Pigs (maiali) inelegantemente coniato nei circoli finanziari, ne rimane uno solo che comincia per I. No, non si tratta, per ora, dell’Italia – che ha un rapporto deficit/pil del 5,3 per cento, nettamente inferiore alla media dei Paesi dell’euro – ma della disgraziata Irlanda che ha un terribile 14,3 per cento. C’è però poco da stare allegri: anche l’Italia comincia per I e il 9 maggio è ancora molto lontano.
Se tutto ciò venisse scritto in un romanzo di fantaeconomia sembrerebbe incredibile oltre che grottesco. Eppure è quanto si sta verificando in un’Europa senza istituzioni sicure, dove la Banca Centrale Europea sta chiusa in un elegante grattacielo, come isolata dal mondo, senza un ministero europeo dell’economia con cui dialogare mentre i singoli paesi vanno ciascuno per conto suo e il Belgio, che dovrebbe essere il più «europeo» di tutti, non foss’altro che per essere sede delle maggiori istituzioni dell’Unione, è entrato in una crisi politica al buio dopo un paio d’anni di effettivo non governo. Non si esce da questa situazione semplicemente mettendo una pezza sul debito greco. Per non affondare, per non andare indietro, l’Europa sarà costretta a fare un deciso passo avanti sulla via dell’integrazione. Tale passo in avanti non può che implicare un’ulteriore perdita di sovranità economica dei singoli stati dell’Unione a cominciare da quelli più deboli che dovranno accettare una supervisione a livello europeo. Alcune competenze economiche degli stati nazionali (per esempio relative alle grandi infrastrutture europee) dovrebbero poi passare a un governo centrale ed essere finanziate mediante un’imposizione fiscale europea, determinata e controllata dal Parlamento europeo. L’autonomia economica di paesi come Francia, Germania e Italia dovrebbe lentamente ridursi fino ad assomigliare a quella (peraltro non trascurabile) di California, Massachusetts o Nebraska all’interno degli Stati Uniti.
Per l’Italia, la situazione presenta un risvolto del tutto particolare. L’Italia ha pagato con 10-15 anni di non crescita, o di crescita insufficiente, l’adesione, peraltro indispensabile, ai parametri di Maastricht: pur non essendo riuscita a ridurre grandemente il rapporto debito/prodotto, ha mantenuto fede agli impegni concordati e i suoi conti pubblici sono abbastanza in ordine. Si tratta naturalmente di una situazione precaria che potrebbe volgere decisamente al peggio in caso di cambiamento improvviso del quadro politico. Uno scioglimento anticipato delle Camere potrebbe indurre le agenzie internazionali di rating, come Moody’s e S&P, delle quali ormai la politica di ogni Paese è succube, ad abbassare improvvisamente la valutazione del debito pubblico italiano. Gli uomini politici italiani, notoriamente loquaci, dovrebbero poi ricordare che, quando fanno dichiarazioni, Moody’s e S&P ascoltano e annotano. Se non dai richiami del Presidente della Repubblica, almeno dalla finanza internazionale dovrebbe venire al mondo politico il richiamo a una maggiore cautela.
La Stampa 27.04.10