ricercatori universitari d’Italia si stanno mobilitando contro il disegno di legge di riforma del ministro Gelmini in discussione al senato. In molte sedi essi hanno preannunciato che nel prossimo anno accademico non insegneranno.
Se queste minacce venissero attuate l’intero processo di offerta formativa del sistema universitario italiano verrebbe messo in ginocchio, perché almeno un terzo degli insegnamenti sono tenuti dai ricercatori.
Siamo di fronte all’esito di una tipica storia italiana che, per essere compresa, necessita di un breve excursus storico (d’altra parte come ben sappiamo molti dei problemi italiani di oggi vengono da lontano). Il ruolo del ricercatore universitario venne introdotto nel 1980 (insieme ai ruoli di professore ordinario ed associato). La normativa che lo istituiva prevedeva che i ricercatori facessero solo ricerca e potessero svolgere solo attività didattica integrativa. Insomma, non potevano essere titolari di insegnamenti. Ed è proprio nell’inizio della storia che sta il germe della patologia: unico paese del mondo occidentale, abbiamo previsto che vi fosse una figura di ruolo, a tempo indeterminato, nel corpo accademico privo della funzione docente.
Geniale vero? Eppure è così. Ovviamente questi ricercatori venivano utilizzati, surrettiziamente, per sostituire i professori a lezione, ma era considerato normale (le pratiche interne all’università ancora adesso sono caratterizzate troppo da queste relazioni di vassallaggio).
Nel 1990, una nuova legge dava la possibilità che i ricercatori confermati (quelli con più di tre anni di anzianità) potessero vedersi attribuita la titolarità di insegnamenti (d’altra parte: che senso ha avere degli accademici di ruolo che formalmente non possono essere anche docenti?) Dal 2005 un’altra legge consente ai ricercatori con incarico di docenza di fregiarsi del titolo di “professore aggregato” (la genialità italica di peggiorare la situazione mettendo delle pezze). Un normale cittadino si chiederebbe: se questi benedetti ricercatori di fatto fanno non solo ricerca (come peraltro dovrebbero fare, e per fortuna spesso fanno, i professori) ma fanno anche didattica, in molti casi insegnando anche due corsi – come i professori insomma – perché mai non gli si attribuisce anche formalmente lo status professorale? In fondo, in Italia si possono fregiare del titolo di professore centinaia di migliaia di persone: gli insegnati delle scuole medie e superiori, qualsiasi esterno all’università che si veda attribuito un contratto di insegnamento universitario. Bella domanda vero? Mistero, ma adesso ci arriviamo.
In questa situazione pirandelliana entra a gamba tesa il ddl Gelmini che prevede che in futuro esistano solo due posizioni di ruolo (professore ordinario ed associato) e che la terza posizione, ricercatore, sia a tempo determinato: un contratto di anni 3+3 e alla fine, se se ottiene una idoneità nazionale, si può essere chiamati come professori associati (la spacciano per tenure track all’americana, ma non è affatto così, ma per ora sospendiamo il giudizio in attesa che il parlamento ci lavori sopra). E i quasi 25mila ricercatori di ruolo? Entrano in una situazione che nel linguaggio amministrativo si chiama “ruolo ad esaurimento”. La storia delle riforme amministrative italiane è piena di trasformazioni di status giuridico che hanno creato “ruoli ad esaurimento”, cioè problemi persistenti nel tempo. A questo punto, giustamente, i ricercatori si arrabbiano, per essere eufemisti, e hanno ragione da vendere. Non tanto perché, come troppi di loro pensano, non viene prevista una normativa transitoria che consenta loro di diventare associati con concorsi riservati, ma piuttosto perché, dopo decenni di presa in giro, di sfruttamento istituzionale, si vedono tagliati via dalla storia.
Quale è il vero problema di questa vicenda? Semplice: il fatto che il governo abbia deciso di proporre una riforma della carriera docente passando da un sistema a tre fasce (come quello inglese) a uno a due fasce (come quello americano). In linea astratta può sembrare ragionevole, ma nei fatti fa finta di non vedere l’eredità del passato (25mila persone, quasi il 40% degli incardinati nelle università italiane). Ma perché non cercare una via più semplice come l’istituzione della terza fascia professorale (in cui inquadrare i ricercatori) e un sistema di anni 2+2 per entrare di ruolo nella terza fascia? Alcuni osservatori (tra cui l’autorevole Sole24 in un commento non firmato del 12 aprile) stigmatizzano l’ipotesi della terza fascia come un’ope legis. Ma via: i ricercatori “professano” (dall’etimo latino pro+facio: colui che agisce in favore alla realizzazione culturale dell’individuo) cioè insegnano, come dei professori di ruolo, ovunque ormai, e da tanto. Di che si parla? Eppure, a questa soluzione ragionevole viene preferita un’altra, che astrattamente sembra più funzionale.
Bene ma è proprio il perseguire questa idea delle due fasce professorali che potrebbe portare il governo e il parlamento a prevedere, sotto la ragionevole pressione degli “arrabbiati”, concorsi riservati e sanatorie per favorire la promozione al ruolo di professore associato degli attuali ricercatori. Come al solito siamo di fronte all’abilità italiana di perseguire con costanza ed applicazione l’eterogenesi dei fini.
da Europa quotidiano 22.04.10
Pubblicato il 22 Aprile 2010