Hanno firmato e ora la presa di posizione è stata messa nero su bianco: i ricercatori dell’Università di Modena e Reggio si asterranno dall’insegnamento.
La decisione, annunciata nei giorni scorsi in svariate facoltà, è diventata ufficiale lunedì pomeriggio, quando ha avuto luogo l’assemblea di ateneo convocata per decidere forme e contenuti della protesta verso il disegno di legge 1905 di riforma del sistema universitario, meglio conosciuto con il nome di riforma Gelmini.
L’iniziativa si è svolta nell’au – la magna di Ingegneria a Modena, in via Araldi: dalle 15 alle
18, circa 80 ricercatori in rappresentanza delle facoltà di Economia, Scienze della formazione,
Scienze della comunicazione, Farmacia, Agraria, Lettere, Ingegneria Modena, Ingegneria Reggio e Scienze matematiche hanno discusso sui modi e termini del dissenso giungendo infine, come detto, ad approvare un documento condiviso. Un atto nel quale, spiegano i ricercatori,
«si ribadisce che non assumeremo incarichi di didattica a meno che non non venga modificato
il ddl Gelmini».
Adesso il documento dovrà essere sottoposto a tutti i ricercatori dell’ateneo e, dopo la sottoscrizione, sarà reso pubblico. Ma si tratta soltanto del primo passo di una vicenda che riguarda l’intero mondo dell’istruzione universitaria italiana: il 29 aprile, infatti, a Roma sarà organizzata l’assemblea nazionale dei ricercatori, alla quale parteciperanno chiaramente anche gli esponenti del nostro ateneo. Un appuntamento nel quale la protesta verrà strutturata: «Chiediamo – continuano i ricercatori – che vengano stanziati più finanziamenti.
Non si può realizzare una riforma che punta a risparmiare denaro; soldi insufficienti a garantire futuro ai precari e prospettive di avanzamento per i ricercatori già a tempo indeterminato».
In attesa del “summit” nella Capitale, a breve i ricercatori reggiani e modenesi incontreranno il rettore dell’Università, Aldo Tomasi, che non ha potuto partecipare all’e vento a causa di un improrogabile impegno fuori città.
Nessuna spaccatura tra i due fronti, anzi: «E’ stata la stessa Crui (la Conferenza dei rettori
delle università italiane) che ha condiviso la protesta dei ricercatori – chiudono -, approvandone la mobilitazione. La protesta non è contro gli organi di ateneo; viceversa, l’obiettivo della mobilitazione è sensibilizzare il ministero dell’Istruzione e il parlamento».
L’Informazione 21.04.10
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“Il patto tradito nelle università”, di Adriano Prosperi
Si parla di fallimento e di chiusura di alcune università nell´indifferenza generale. Ne ha scritto Giuliano Amato in un inciso di un articolo apparso su un quotidiano. Amato è uno degli ultimi presidenti del Consiglio che è anche un professore universitario: l´ultimo, per la cronaca, è stato Romano Prodi. Nel passaggio dal Professore al Cavaliere si è compiuta una rivoluzione silenziosa nella composizione del governo e più in generale in quella della cosiddetta classe politica : se in passato la categoria dei professori universitari è stata presente in forze in Parlamento, se al rito del giuramento di fedeltà alla Costituzione il titolo che sentivamo ripetere era quello di Professore subito dopo quello di Onorevole, oggi nei palazzi romani troviamo un corpo di professionisti della politica che nel complesso viene da tutt´altra esperienza e da altri mestieri. Sarà forse anche per questo che «la gente» si sente meglio rappresentata, come si tende a pensare: c´è sempre qualche opinionista pronto a dare un segno positivo alle cose peggiori se questo può far piacere ai vincitori del momento.
Ma intanto «la gente» ha appena scoperto sulla sua pelle di avere eletto dei pubblici amministratori – o Governatori come si dice oggi – che sproloquiano su pillole e aborto senza avere la minima idea delle leggi che dovrebbero applicare. E comunque converrebbe a tutti porsi la domanda se il mondo del futuro che si prepara in Italia con l´abbandono alle ortiche degli studi universitari vada o no d´accordo con l´evoluzione del mondo che ci circonda e quale futuro si prepara così ai giovani.
Oggi il detto dell´antico senso comune «val più la pratica che la grammatica» si è adeguato ai tempi ed è stato tradotto nel disprezzo per gli studi «puri», quelli che non portano soldi. Ne sanno qualcosa i frettolosi potatori dell´albero accademico delle discipline e gli inventori di nuovi corsi di laurea. Intanto nessuno presta attenzione al disegno di riforma dell´università partorito dagli esperti di un ministero che non ha neanche più un professore alla sua guida. Non sembra che ad Arcore tra Bossi e Berlusconi la questione abbia avuto un qualche spazio. Né si trova da nessuna parte dei tanti luoghi della politica, dalle segreterie dei partiti alle vecchie e nuove fondazioni create dai leader di correnti e di movimenti una qualche attenzione più che epidermica al futuro che giorno dopo giorno prende forma nella scuola e nell´università: che è quanto dire il futuro dei giovani di oggi, il volto dell´Italia di domani. Eppure quel futuro è già scritto: è scritto nella trasformazione già in atto che va uniformando l´università alle direttive della maggioranza di governo; ed è scritto nel progetto di riforma universitaria pronto al varo. Intanto una vasta rivoluzione investe la composizione del corpo docente. Qui si svolge l´uscita di scena dei vecchi titolari mentre dietro di loro si avanzano figure indistinte e si crea soprattutto un vuoto che nessuno può o vuole colmare. Ai professori di ruolo anziani è stato chiesto di accettare un patto tra generazioni lasciando in anticipo la cattedra in cambio dell´apertura di posti per i giovani.
Chi ha accettato quel patto ha scoperto che non funziona. Lo scrivente può affermare per diretta esperienza che sulla cattedra da lui appena lasciata non si è aperta nessuna possibilità per nessun giovane esperto della materia. E gli studenti che frequentano i corsi sanno che nel vuoto che si allarga sempre più si creano situazioni grottesche: insegnamenti affollati tenuti a titolo gratuito e volontario da persone ingaggiate casualmente che vivono di speranze e di mezze promesse. La casualità del fenomeno non toglie che, nel vasto continente delle generazioni bruciate che da tempo ci lasciamo alle spalle nell´Università, si avanzino timidamente in tal modo persone che hanno tutte le carte in regola dal punto di vista della preparazione. Ma sul meccanismo in sé è lecito avere dei dubbi.
Che cosa si direbbe se a Termini Imerese abbandonata dalla Fiat le automobili venissero fabbricate gratuitamente e volontariamente da operai improvvisati? Chi comprerebbe a occhi chiusi quelle macchine? Intanto nell´Università quel poco che si muove va avanti a spizzico nel meccanismo dei concorsi. Si è dato il via ad alcuni, pochi, concorsi da tempo in attesa, modificando il meccanismo di formazione delle commissioni giudicatrici. È stato introdotto il sorteggio per correggere il sistema grazie al quale si sapeva fin dall´inizio chi era destinato a vincere deducendolo dal nome del docente e dal luogo del concorso. Ma si è dimenticato di riaprire i termini per la presentazione delle candidature, per cui le nuove o parzialmente rinnovate commissioni di tipo parzialmente «casual» si troveranno a giudicare solo i candidati autoselezionatisi in previsione dell´esito allora certo. Magari i migliori sono rimasti fuori, per non perdere tempo e soldi in un concorso fasullo. Il che dimostra che se si vuole cambiare un corpo complesso e delicato come quello della docenza universitaria bisogna pensarci bene ed evitare provvedimenti casuali e distratti accanto a laboriose costruzioni di regolamenti per «valutare» meriti di candidati ridotti dalla disoccupazione dall´emigrazione dei migliori a essere i buoi di una stalla in svuotamento. Ma dicevamo del progetto di riforma.
Quel progetto prevede l´apertura degli organi di governo dell´ateneo a persone rappresentative dell´economia e della società locale. Il che vuol dire affidare a commercianti, artigiani e industriali la decisione se si debba studiare la papirologia piuttosto che l´economia aziendale, l´etruscologia invece delle scienze del turismo.
Non ci sarebbe niente di male in questo se la storia e la cultura di questo Paese e dell´intera Europa occidentale non ci avvertissero della scarsa o nessuna propensione del mondo degli affari e della produzione a occuparsi dell´Università: che da noi, e specialmente in Italia, è cosa che si lascia da sempre allo Stato, così come la salute. L´americanizzazione che si sta preparando a tappe forzate in Italia per l´intero sistema politico e per le funzioni statali promette anche in questo caso di avvicinarci non al modello degli Stati Uniti ma ai peggiori fra quelli dell´America latina. Immettere nel governo dell´Università esponenti del mondo della produzione e degli affari è una delle tante scimmiottature di un Paese radicalmente diverso dal nostro che governi di centro sinistra e di centro destra continuano a proporci. Eppure quanto sia grande la differenza basterebbe a ricordarcelo la violenza delle polemiche e delle resistenze che si sono scatenate negli Stati Uniti davanti al progetto di riforma dell´assistenza sanitaria del presidente Obama.
Nella società americana il principio del fare da sé e del non chiedere nulla allo stato fa parte della più radicata cultura dell´individualismo protestante e dello spirito della frontiera. È da quella radice che è nato un mondo dove gli studi come via fondamentale per la promozione dei migliori e per la crescita complessiva del Paese hanno un posto centrale. Il sogno americano è quello di diventare presidente come strada aperta a chiunque: una strada sulla quale si muove il primo passo quando i genitori progettano il futuro del figlio che nasce mettendo da parte i soldi per la scelta dell´università. Oggi quel sogno si è incarnato nella storia di un uomo, l´attuale presidente Obama: ed è per questo, perché qui si incontrano esperienza personale e sentimento collettivo che nella sua campagna elettorale così come nella sua attività di governo il principio della qualità degli studi ha avuto e continua ad avere un posto centrale. Ed è per questo che negli Stati Uniti i lasciti alla propria «alma mater» insieme a quelli alle collezioni pubbliche d´arte e alle biblioteche fanno parte dell´etica civile.
Da noi l´università statale a basso costo e il titolo della laurea uguale per tutti hanno prodotto la proliferazione localistica e l´abbassamento della qualità degli studi, perché il sogno italiano è quello del titolo di «dottore», così importante che a Roma non lo si nega a nessuno. E quasi nessun industriale, nessun banchiere, nessun professionista, nessuno dei tanti nuovi ricchi che affollano i campi di calcio si sognerebbe di fare donazioni all´università. Il risultato è quello di una regressione culturale prevedibile, anzi già in atto. Ma è anche e soprattutto quello della sparizione dall´orizzonte dei giovani della stella che dovrebbe essere più luminosa: la speranza nel futuro, la fiducia nel mondo che li aspetta.
La Repubblica 21.04.10