L’idea del ministro Gelmini di rendere regionali le graduatorie dei docenti risulta contraria al parere del Consiglio di Stato che si è già espresso a favore del carattere nazionale della nostra comunità scolastica, citando, in una sentenza di merito – che fa giurisprudenza – gli articoli 3, 4, 16, 51 e 97 della Costituzione. Ma, ben al di là del diritto costituzionale, l’idea di limitare gli insegnanti a svolgere il proprio compito solo entro la propria regione appare difficilmente praticabile.
In primis, per come è la vita reale delle persone e anche perché in contrasto con i principi stessi sui quali si fonda l’Europa unita. Infatti, se questa proposta passasse, il giovane docente di matematica che insegna a Castelfranco Veneto e si sposa con la collega di Brescia o di Mantova o di Bari o di Catania, non potrebbe cambiare sede. E la docente di latino di Trento che ha il padre malato di Alzheimer che vive nella confinante provincia di Verona, non potrebbe chiedere l’avvicinamento. L’Unione europea, poi, si fonda sulla libertà di andare e venire delle persone e delle cose. E così io, insegnante elementare con buone competenze di lingua inglese – se seguo le norme per l’immissione nelle scuole britanniche – posso andare a insegnare a Leeds o a Oxford. E il mio amico docente di genetica a Edimburgo ha deciso di venire a insegnare a Napoli, sua città d’adozione spirituale, con grande soddisfazione dei suoi studenti partenopei. E noi tutti mandiamo i figli a fare l’Erasmus – in giro per la casa comune europea – perché, insieme alle lingue, promuoviamo, nei nostri ragazzi, questa santa libertà di muoversi, fare esperienze nel mondo e di cambiare vita se lo si vuole. È un grande lascito del pensiero liberale. Una cosa meravigliosa, che apre gli orizzonti del sapere e le possibilità della vita.
Alcuni sostengono che le scuole del Sud e del Nord hanno problemi diversi e dunque che bisogna creare comparti distinti e separati. È in parte vero che hanno problemi diversi. Perché pesano sulle scuole del Mezzogiorno pubbliche amministrazioni meno capaci ma soprattutto incide la povertà, che è molto maggiore. E che è una povertà materiale e culturale insieme. Infatti nelle regioni meridionali risiedono il 65,3 percento delle famiglie povere. In termini assoluti le famiglie povere residenti nel Mezzogiorno sono 1.713.000, tre volte di più di quelle residenti nel Nord, che ammontano a 595.000. E i bambini e ragazzi poveri sono, in Italia, 1.809.000, il 17% del totale. Ma nel Sud risiede il 70% dei minori poveri: 1.245.000. Fare scuola a Sud è spesso più difficile. Che facciamo? Negli Stati Uniti, paese federale per eccellenza, gli squilibri nei tassi di esclusione precoce dovuti a maggiore povertà e a analfabetismo funzionale delle famiglie non spingono ad abbandonare le zone più difficili ma al contrario a occuparsi delle zone povere come parte del patto nazionale, unitario, perché la cultura è una, indivisibile. E sia Bush che Obama hanno promosso, con l’unanimità di Senato e Congresso, programmi tesi a fare spostare i docenti migliori, con forti incentivi, per sostenere lo sforzo comune. È una tradizione che, del resto, ci appartiene.
Migliaia di docenti del Nord sono partiti per il Mezzogiorno subito dopo l’Unità d’Italia. E migliaia di docenti e dirigenti di origine meridionale hanno costituito l’ossatura delle scuole di tutta Italia prima, durante e dopo il fascismo.
Fa bene il ministro a richiamare i temi della didattica e del merito. Ma faccia attenzione: sono grandi temi nazionali. Confonderli con la regionalizzazione dei docenti non aiuta ad affrontarli. Perché, ben oltre le differenze regionali e locali, la scuola, ovunque, si sta oggi misurando con almeno due radicali mutazioni che sono comuni a tutto lo scenario italiano. La prima mutazione è data dal fatto che è saltato il patto implicito tra scuola e famiglia. I professori di oggi non possono più dare per scontato l’accordo con i genitori dei propri alunni com’era un tempo. Questa rottura del patto tra adulti ha molte cause. Contano enormemente i modelli veicolati dall’insieme della società e dai media. I valori dei genitori non si formano più entro comunità culturalmente omogenee bensì in modi molto differenziati. E la società italiana sta conoscendo anche una crisi drammatica nel presidio delle procedure, delle regole e del limite che sono cose fondamentali per poter educare. Ci vuole un grande lavoro per rifondare tale patto. La seconda mutazione sta nel fatto che la scuola non è più il solo luogo dove si accede alle informazioni e ai modi di apprendere. Tutte le discipline sono, infatti, parte della rete e sono accessibili in mille forme, rapidamente. Con la possibilità ulteriore di essere manipolate, variate, confuse, confrontate. Lo stesso modo di imparare – il funzionamento del cervello umano – viene chiamato in causa: organizzazione della memoria, presenza simultanea di molti codici, compresenza di procedure analogiche e logiche, relazione immediata tra produzione costruita e fruita, ecc. Questa è la prima generazione di docenti che ha perso il monopolio delle conoscenze e dei mezzi per trasmetterle. E che deve insegnare a distinguere, scegliere, confrontare, in mezzo a un mare di informazioni complesse e contraddittorie, valutando il sapere e le competenze che i propri alunni hanno acquisito in moltissimi modi, anche lontano dalla scuola e diversi da come loro hanno imparato. Ci vuole una semplificazione della scuola e una contemporanea capacità di affrontare questa crescente complessità.
Così, si tratta sì di affrontare il tema del sostegno ai gruppi docenti – non basta promuovere i singoli – in termini meritocratici ma con gli occhi rivolti a cosa è insegnare e imparare oggi. Ma questa gigantesca sfida educativa – che ha un profondo senso culturale e politico per la modernizzazione del Paese – vale a Messina come a Napoli, ad Aosta come a Milano o Torino o Bologna o Venezia o Reggio Calabria. E, per vincerla, ci vuole un esercito civile unitario ben preparato e nuovamente motivato e non delle ridotte locali chiuse ciascuna nel proprio particolare.
La Stampa 21.04.10