C’è nel mondo un paese avanzato, ricco, dove le persone istruite sono meno numerose che negli altri, eppure a chi si istruisce non è facile trovare un posto di lavoro adeguato agli studi, e se lo trova non è pagato bene. Per questo gli studenti si impegnano poco e i loro risultati, nel confronto internazionale, sono deludenti. E’ un paese dove le iscrizioni all’Università diminuiscono; dove le famiglie pagano rette di scuole private non perché i figli si istruiscano meglio, ma per rimediare alle bocciature o per condurli al «pezzo di carta» con meno sforzo. All’impressione diffusa di un declino culturale dell’Italia – che nelle nostre élites alimenta la dilagante moda di spedire i figli in università estere – ora un libretto appena uscito dà una rigorosa base di dati, senza forzature ideologiche. Piero Cipollone e Paolo Sèstito, economisti della Banca d’Italia, riassumono i risultati dei loro studi in centotrenta pagine della collana divulgativa del Mulino, «Farsi un’idea». Prima di intitolarle Il capitale umano, si sono domandati se questo concetto tecnico comunicasse in pieno ciò che vogliono dire; di fatto, offrono strumenti per discutere ciò che noi italiani vogliamo fare del nostro futuro.
Un paese più istruito è anche un paese più civile, più solidale, con una democrazia più ricca; è ovviamente più pronto ad impadronirsi delle nuove tecnologie con le quali soltanto, nel dopo-crisi, i paesi già ricchi potranno reagire alla sfida dei paesi emergenti. Negli studi della Banca d’Italia e di altri economisti, l’Italia appare anomala. Se sotto i 45 anni la percentuale di italiani laureati è metà rispetto ai francesi e agli spagnoli, e poco superiore a quella dei turchi, sarebbe logico aspettarsi che di laureati ci sia penuria. Invece il nostro sistema economico ne chiede pochi e li paga troppo poco più di chi ha studiato meno. Facciamo sempre meno figli, eppure diventa più difficile sistemarli: «a partire dalla seconda metà degli Anni 80, si è avuta una diminuzione dei salari di ingresso dei giovani laureati, non compensata da una crescita delle loro retribuzioni al progredire della loro vita lavorativa. Il divario retributivo fra vecchi e giovani si è anzi ampliato fra i laureati, ma non tra i diplomati, con il risultato di affievolire ulteriormente per i più giovani l’incentivo a conseguire una laurea». Si rischia così un «circolo vizioso», scrivono Cipollone e Sestito: un sistema produttivo fatto di piccole imprese e concentrato su settori produttivi tradizionali assorbe pochi laureati (la Confindustria chiede al governo di potenziare le scuole tecniche, perché è casomai a quei livelli che registra mancanza di qualifiche); a sua volta lo scarso incentivo a studiare offre alle imprese poche persone capaci «di innovare e di adottare quelle tecnologie che ne sosterrebbero la crescita».
La colpa è anche di come è fatta la nostra scuola. Cipollone è anche impegnato sul campo a migliorarla, come presidente dell’Invalsi, l’ente pubblico incaricato di valutare le prestazioni del nostro sistema educativo, noto ai genitori per i test nazionali omogenei che si accompagnano agli esami scolastici. Una scoperta curiosa – sulla base dei dati di confronto internazionale offerti dalla indagine Pisa dell’Ocse – è che sui risultati dei ragazzi l’ambiente familiare influisce sì, ma meno che nella media degli altri paesi. Perfino i figli di genitori istruiti non se la cavano tanto bene. Oltre a una abbondanza di studenti che imparano poco, l’Italia conosce anche una «scarsità di studenti dalle prestazioni molto brillanti».
Detto in parole povere: se il futuro dei giovani dipende più dai «pezzi di carta», dalle raccomandazioni, dal facile subentro nella professione dei genitori, o semplicemente dal vivere di rendita sul patrimonio di famiglia, impegnarsi non giova né ai ricchi né ai poveri. Dai test, risulta che le elementari sono buone, e il divario con gli altri paesi si apre nella media inferiore. Per l’università spendiamo molto poco in assoluto, invece una cifra nella media internazionale se la si divide per il basso numero degli studenti. E poi c’è l’impressionante divario tra aree del Paese. Con identiche cognizioni di matematica i quindicenni bocciati con 5 al Nord sono faticosamente promossi con un 6 al Centro, al Sud addirittura premiati con un 8.
La Stampa 20.04.10