IL PDL è un difficile tentativo di convivenza di tre diversi stili politici; tre modi di essere che, come la crisi interna di questi giorni dimostra, sono difficilmente armonizzabili. Tre sono le concezioni politiche o sedicenti politiche che lo compongono: una comunitaria-organicistica; una tradizionale istituzionale; e una patrimonialista. La vittoria elettorale nelle recenti consultazioni amministrative ha marcato e ingigantito le differenze tra queste tre anime fino a destabilizzare la coalizione di governo. Una ragione che ha probabilmente portato a questo esito paradossale di indebolimento a seguito di una vittoria sta nella distribuzione geografica. Nel fatto cioè che non tutte e tre queste anime sono equamente distribuite sul territorio nazionale. Il gruppo che fa capo al presidente della Camera ha una forte presenza nel Centro-Sud, mentre la Lega ha una forte se non esclusiva rappresentanza al Nord. A mediare questo bipolarismo territoriale è Silvio Berlusconi. Ma che la mediazione non sia tale, e infatti sia l’opposto di ogni forma di mediazione, diventa chiaro qualora si presti attenzione alla ragione strutturale e non solo territoriale del sisma che sta sconquassando il Pdl: gli alleati hanno diverse, se non opposte, concezioni di che cosa debba essere la politica conservatrice e più in generale la politica e le istituzioni.
La Lega ha bisogno di radicamento per esistere e resistere: quindi non sopporta facilmente la competizione sul proprio territorio. Nei blog del movimento giovanile dei Padani si trova ripetuta l’espressione “fratelli su libero suolo”. “Libero suolo” ha una doppia implicazione: denota una “libertà da” ovvero contro chi cerca, non appartenendovi, di insediarvisi e una “libertà di” esprimere liberamente le proprie energie. Il “suolo” è lo spazio vitale che contiene e alimenta la libertà dei leghisti, un luogo abitato non tanto da eguali nei diritti (un valore molto poco compreso dai fedeli della Lega) ma da simili nella cultura e nei supposti valori; persone che si riconoscono con una semplice occhiata, che si odorano identici, che si fidano solo se non ci sono estranei tra loro – e, si badi bene, gli estranei non sono soltanto gli immigrati, ma possono esserlo anche gli alleati di coalizione (non è un caso che pochi giorni dopo la vittoria elettorale, Umberto Bossi si sia prenotato per il sindaco di Milano: la “nostra terra”, la “nostra gente”, il “nostro sindaco” e, come abbiamo anche sentito, le “nostre banche”) . Il gruppo che si riconosce in Fini esprime al contrario una politica istituzionale nazionale, un approccio tradizionale alla forma Stato che è per questo più facilmente comprensibile da parte di chi mastica politica secondo le regole di uno Stato moderno di diritto. Per esempio, l’idea che se si vuole approdare a una repubblica presidenziale occorra cambiare la legge elettorale è quanto di più ragionevole e sensato ci possa essere per chi si occupa di politica istituzionale: nulla di trascendente, eppure così impossibile da accettare e comprendere da parte di Berlusconi!
E qui veniamo alla terza componente della destra italiana, che in effetti “componente” non lo è proprio, perché Berlusconi è non soltanto l’ideatore del Pdl ma ne è proprietario a tutti gli effetti e per questa ragione non può oggettivamente comprendere le ragioni istituzionali. Mentre può forse meglio comprendere quelle “organiche” territoriali della Lega perché, in fondo, sono mosse da una logica monopolistica che ha comunque a che fare con un linguaggio “proprietario” (del suolo).
Quale che sia l’esito di questo movimento tellurico è evidente che almeno una cosa dovrebbe essere diventata chiara a chi si è illuso di godere “da pari” dei privilegi promessi da un’alleanza con Berlusconi: che gli alleati sono tali solo se e perché hanno una indipendenza e sono partner. Ma non si può essere partner in un partito che è proprietà di qualcuno; anzi, in questo caso ogni tentativo di ridiscutere le forme dell’accordo è visto e trattato come un insolente attacco al leader. Berlusconi ha un’etica monolitica, e conosce un linguaggio e uno solo: quello del comando padronale. È così connaturato in lui questo stile che egli non sa nemmeno distinguere fra Istituzioni dello Stato e dipartimenti economici del suo impero: se Fini dissente, minaccia di licenziarlo. È difficile pensare quindi a come si possa soltanto pensare in termini di trattativa, mediazione, accordo – anche in questo Fini dà il segno di parlare una lingua che il presidente del Consiglio non conosce: quella della politica come funzione che chi svolge non possiede. La cultura ‘politicà del leader del Pdl è per tanto di destra in senso molto improprio perché è semplicemente patrimonialista. Si leverà qualche voce meno stentorea a dire forte che lo Stato non è a sua disposizione perché non è roba sua?
La Repubblica 19.04.10