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"La sicurezza del treno lento", di Vincenzo Congedo

Il tragico incidente ferroviario della Val Venosta, dovuto ad una frana, riapre la riflessione sulla sicurezza dei trasporti su rotaia e sulla prevenzione. Nel 1997 un disastro altrettanto drammatico dovuto a un errore umano si verificò a Piacenza. Dopo quel fatto venne varata una normativa sulla circolazione dei treni eccessivamente prudente, che è, in buona parte, la ragione dei ritardi che affliggono i treni dei pendolari. Per risolvere il problema basterebbe calibrare il sistema Scmt alla regolamentazione precedente, per la quale le Ferrovie italiane erano annoverate fra le più sicure.

Il 12 gennaio 1997, in una bella giornata di sole, un Pendolino partito da Milano alle ore 12.55 e diretto a Roma, all’ingresso della stazione di Piacenza, deragliava provocando otto morti e trentasei feriti.
L’evento è stato particolarmente grave per due ragioni: non era mai accaduto che un treno deragliasse su un binario di piena linea; erano morti entrambi i macchinisti e quindi non era possibile avere la versione dell’accaduto da parte di chi guidava il treno.

CAUSE ED EFFETTI DI UNA TRAGEDIA

Il fatto destò enorme scalpore, ma soprattutto mise in crisi gli addetti alla regolamentazione i quali, pensando che i conduttori del treno non si fossero scrupolosamente attenuti alle indicazioni ricevute, emanarono norme molto più restrittive da rispettare davanti a certi aspetti dei segnali. Del resto, chiunque si fosse trovato al loro posto di fronte a un caso unico (un treno che deraglia su un binario di corretto tracciato ancorché in curva) e al fatto che il tachimetro di bordo segnasse 162 km/h, contro i 105 km/h previsti dalla linea, avrebbe forse fatto altrettanto.
Nei sei anni successivi si svolsero un primo processo a Piacenza e un secondo in appello a Bologna. In entrambi, i giudici sancirono che la responsabilità dell’accaduto era da attribuire esclusivamente ai macchinisti che viaggiavano a velocità di molto superiore a quella prescritta.
Ma se si approfondisce il caso – come qualcuno ha cercato di fare su internet – il disastro del Pendolino sarebbe dovuto a un guasto tecnico e, di preciso, alla frattura dell’albero di trasmissione anteriore della motrice di testa, che sarebbe caduto sul binario impuntandosi e sollevando quindi il veicolo. Sembra, infatti, che l’albero di trasmissione avesse già dato problemi su veicoli della stessa specie. Si spiegherebbero così le due incertezze non concordanti con la versione avvalorata dai processi di Piacenza e Bologna: il deragliamento su una curva come quella si sarebbe potuto verificare se il treno avesse superato i 170 km/h, mentre come risulta dal tachimetro viaggiava a 162 km/h; risulterebbe che l’unica azione frenante sia stata quella espletata dall’automaticità, che è intervenuta solo quando è uscito fuori dai binari il primo asse della prima carrozza. Le ruote di tale asse, libere di muoversi, avrebbero fatto salire la velocità registrata a 162 km/h, spiegando contemporaneamente il comportamento dei macchinisti che non erano ricorsi all’uso del freno.

SICUREZZA E VELOCITÀ

L’interesse di una nuova riflessione su quella vicenda lontana sta nel fatto che le norme emanate a seguito della ricostruzione ufficiale del disastro (velocità di approccio, velocità di avviamento, eccetera) non si sono rivelate efficaci ai fini della sicurezza: infatti non sono stati evitati incidenti anche gravi (vedi il disastro di Crevalcore nel quale persero la vita diciassette persone) mentre si sono allungati i tempi di percorrenza dei treni. Con l’introduzione della tecnologia, denominata Scmt – sistema di controllo della marcia del treno, che fornisce informazioni puntuali ma in forma discontinua, il treno deve rigorosamente rispettare i limiti di velocità imposti; così che anche in caso di minimo superamento, viene automaticamente arrestato. Ma avendo calibrato il sistema sulle norme emanate a seguito del disastro del Pendolino, per garantire la regolarità, si è fatto ricorso alla riduzione della velocità commerciale e quindi si è finito con l’abbassare la capacità delle linee e della rete. Insomma, meno treni all’ora per ogni chilometro di linea. Questa è la ragione per la quale – nonostante i raddoppi, i quadruplicamenti, l’eliminazione di passaggi a livello – i treni che circolano sulla linea storica, nella maggior parte dei casi, sono più lenti di prima del 1997. E, in buona parte, questa è la ragione dei sistematici e snervanti ritardi che affliggono i treni dei pendolari.
Da calcoli fatti e mai contestati dagli interessati gli spazi che le norme garantiscono per la frenatura dei treni sono almeno quattro volte più estesi di quelli effettivamente necessari alle basse velocità (30/60 km/h). Dopo la tragedia del Pendolino è stata completamente invertita la secolare tendenza ad adottare una migliore e raffinata tecnologia per garantire la sicurezza necessaria all’incremento della velocità commerciale dei treni e alla crescita della capacità delle linee. E poiché le spese per l’adozione delle nuove tecnologie per la sicurezza sono state tutt’altro che banali (4,4 miliardi di euro), c’è da chiedersi se non sia stato fortemente ridotto il rendimento a causa di norme di circolazione dei treni eccessivamente prudenti. Non costituisce anche questo un grave e continuo spreco di risorse?
Con l’inaugurazione dell’alta velocità, sono venute alla luce tutte le conseguenze della discutibile normativa: la circolazione nei nodi nelle ore di punta è incompatibile con quella degli altri treni in particolare con quella dei pendolari; i provvedimenti adottati per risolvere il problema, mi risulta, abbiano scontentato la maggior parte dei clienti. Eppure la soluzione è a portata di mano. Basterebbe calibrare il sistema Scmt alla regolamentazione esistente prima delle modifiche apportate a seguito del disastro del Pendolino e per la quale le Ferrovie italiane erano annoverate fra le più sicure al mondo.

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