Investire in università e ricerca è una questione decisiva per il destino dell’Italia. Come dimostrano le statistiche, scontiamo un grande ritardo rispetto ai Paesi più sviluppati: siamo indietro, rispetto alla media Ue/Ocse, per numero dei laureati e dei ricercatori, investimenti per studente, rapporto docenti/studenti, internazionalizzazione. E fare dell’università il motore della mobilità sociale è un obiettivo centrale in un Paese bloccato, nel quale sempre più i giovani percepiscono che il loro futuro è collegato a valori ben diversi dalla qualificazione acquisita con lo studio.
Per questo è urgente far uscire la riforma dell’università, che entra nel vivo dell’esame parlamentare, dal ristretto circuito degli addetti ai lavori, ed entrare nel merito di una proposta che finora è stata valutata più in base agli slogan propagandistici del Governo che al suo reale contenuto.
Alla riflessione sul sistema di governo degli atenei e sul reclutamento dei docenti, su cui si sono soffermati negli ultimi tempi numerosi commenti, deve accompagnarsi quella sugli obiettivi della riforma e sui nodi strutturali del sistema. Noi chiediamo di partire dagli studenti: orientamento, diritto allo studio, residenze, welfare. E dai ricercatori: percorsi di carriera rapidi e fondati su regole chiare, e dunque docenti più giovani – abbiamo la classe docente più anziana del mondo occidentale – e di qualità. Sulla governance, più efficienza e meno autoreferenzialità, ma con regole chiare e un circuito di fiducia tra Senato e cda. E poi autonomia vera degli atenei, inserimento in legge di criteri e conseguenze della valutazione, nuove regole sulla ripartizione delle risorse ordinarie tra gli atenei, da affidare a pochi e trasparenti criteri: scelta degli studenti, valutazione di ricerca e didattica, diritto allo studio e coesione territoriale.
Più laureati e promozione degli studenti meritevoli, percorsi rapidi di selezione dei docenti, funzionamento più efficiente e risorse adeguate, dunque. Elementi centrali per far ripartire l’università, ma purtroppo del tutto carenti nel ddl Gelmini: una proposta iper-centralista, che sottopone a un reticolo inestricabile di norme e al controllo della burocrazia ministeriale ogni minimo dettaglio della vita degli atenei. Passaggi troppo macchinosi per il reclutamento e un destino di incertezza e precariato per i giovani ricercatori, mentre noi chiediamo che si attivi una fase transitoria nella quale consentire ai ricercatori (strutturati e non) che lo meritano di entrare nei ruoli. Gli studenti, poi, non esistono: secondo il Governo si dovrebbe affidare a una spa del ministero del Tesoro – ci risiamo! – la selezione dei meritevoli, senza che sia previsto un solo euro di risorse pubbliche per finanziare le borse.
Torniamo alle risorse: anche qui occorre raggiungere quantomeno la media dei Paesi europei, passando dallo 0,8 attuale all’1,3% del Pil. Sembrava pensarla così anche la Gelmini («riforme in cambio di risorse », il suo mantra nei mesi scorsi), ma si trattava, evidentemente, solo di parole, poi smentite dal Governo. Che, al contrario, sembra avere un unico obiettivo: confermare i tagli per oltre 1 miliardo (quasi il 20 per cento), che fin d’ora rendono difficilissima la vita di molti atenei, e che certamente renderanno impossibile il loro funzionamento nel 2011. Insieme a quelli alla scuola e alla ricerca, circa 10 miliardi di tagli in tre anni. Nel frattempo la Francia, ad esempio, investe 11 miliardi per l’università e 8 per la ricerca.
Il Pd ha affrontato queste questioni con una prima serie di emendamenti, presentati in Senato. Se il Governo è disposto a un intervento più serio e coraggioso, a investire realmente nell’istruzione terziaria, siamo pronti al confronto. Il tema, come ha riaffermato pochi giorni fa il presidente Napolitano, è decisivo, e costituisce uno degli interessi generali del Paese che dovrebbero stare al riparo da logiche di parte e di propaganda. Insieme, forze politiche, economiche e sociali, studenti e docenti, dobbiamo “pretendere” regole migliori e risorse adeguate al rango che il nostro Paese deve mantenere. Altrimenti continuerà a diminuire il numero dei giovani che si iscrivono all’università e dei talenti che pensano di poter fare ricerca liberamente in Italia. Sarebbe una scelta chiara, verso uno sviluppo di serie B: una prospettiva disastrosa, che forse siamo ancora in tempo per invertire.
*Responsabile Università e ricerca segreteria Pd
Il riformista 14.04.10
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