cultura, memoria, università | ricerca

"L'intellettuale ironico che raccontava il pop", di Michele Serra

Dicono gli amici più vicini che la bella testa di Edmondo, negli ultimi mesi di faticosissima malattia, trovasse requie, e perfino felicità, solo nella scrittura. La cosa non sorprende. La testa di Edmondo era così piena di oggetti, di persone, di pensieri, che non poteva certo starsene in balia del male, a rimuginare sugli orribili impicci che ostano alla nostra libertà di pensare, e ai pensieri dare un senso, un ordine, una dignità formale.
La testa di Edmondo era speciale: difficile da padroneggiare, immagino, anche per lui che ne era il padrone. Era la testa di un accademico, ben strutturata attorno allo studio, politologia, sociologia, la politica dottrinaria, la storia del pensiero. Ma era piena di finestre spalancate sulla vita “normale”, la sua, la nostra.

Le canzoni, il calcio, la televisione, quello che oggi si chiama genericamente “pop”, erano per Edmondo materia di incessante curiosità, di partecipazione emotiva e razionale. Un intellettuale rigoroso che non diminuisce il suo calibro culturale solo perché la materia è vile e allegra, e parla di Mariolino Corso e di Pareto, dell’Equipe 84 e di Bauman, con lo stesso rispetto per i materiali della vita: questo era Edmondo Berselli, una smentita vivente della maniera appartata e schizzinosa con la quale il colto rischia sempre di guardare al “volgare”. E al tempo stesso – e qui stava il difficile – uno che anche quando divagava lungo i margini più spensierati e leggeri della cultura di massa, non cadeva mai nel cosiddetto “cazzeggio”, orrida parola che serve soprattutto a “prendere le distanze”.
La distanza, per Edmondo, era sempre la stessa: le cose si guardano (tutte) perché ci stanno di fronte. Si deve “scendere verso terra e trovare le soluzioni lì dove le stai cercando, nei labirinti del quotidiano, tra le alternative intrinseche della realtà”: così ha scritto nel suo ultimo libro, partorito già in malattia, sul suo cane Liù, riflessione intensa, divertente, gentile sui complicati rapporti tra i viventi, compresi quelli che per farsi capire possono solo abbaiare. Bene la teoria, bene conoscere i testi sacri e padroneggiare i classici: ma la realtà è solo “lì dove la stai cercando”, “verso terra”, ed è con il colossale groviglio della società di massa, è con il brulicare degli esseri viventi che ognuno di noi deve fare (umilmente) i suoi conti.

Quando lessi il suo libro (molto partecipe) sull’Emilia rossa, Quel gran pezzo dell’Emilia, gli feci notare, con scherzosa indignazione, che si era dimenticato di citare, nel suo enciclopedico percorso tra le persone e le cose della sua terra, la diva del cinema erotico soft Carmen Villani, che fu popolarissima verso la fine dei Settanta. Mi sembrò seriamente colpito da una chiosa così minima, e così poco nevralgica. Perché per lui il “pop” meritava lo stesso interesse di altre emerite rassegne di studiosi e di testi importanti. E molte delle sue energie, da adulto di successo, le ha dedicate all’inventario delle canzoni, alla critica televisiva, al racconto meditato dei suoi anni di formazione (gli anni del beat, i luminosi Sessanta non ancora incattiviti dall’ideologia), alla collaborazione teatrale con il suo amico Shel Shapiro, a un viaggio televisivo lungo i percorsi “padani” da restituire urgentemente a una memoria più serena e profonda, parlando più di Guareschi e Bertolucci, magari, che delle camicie verdi e degli ultimi ritrovati di una tradizione inventata.

Era un provinciale di mondo. Amava profondamente la sua Modena. Flessioni quasi impercettibili di quella parlata resistevano nella sua voce colta: no, non è necessario essere teatralmente, ruvidamente “indigeni” per avere una forte identità territoriale. Lo vidi l’ultima volta nella stazione di Brescello, il paese di don Camillo, per una chiacchierata televisiva su Guareschi e la sua Bassa, in un pomeriggio di novembre fradicio e freddo che più bassaiolo di così non si poteva. Non era mai invasivo, mai saccente, mai cattedratico, nei suoi confronti era difficile nutrire soggezione anche pensandolo direttore del Mulino, capo di un cenacolo tra i più autorevoli del Paese. Scriveva benissimo, una prosa ricca, allusiva, fulminante negli incisi, e se non tutti i savants diventano bravi giornalisti è probabilmente perché mancano della sua quasi infinita elasticità di pensiero, indispensabile per adattare all’uso quotidiano pensieri raccolti leggendo la saggistica pesante. Divagante, spiritoso, acuto, leggerlo non era mai un’esperienza scontata. In ogni editoriale, in ogni libro, si indovinava una diffidenza radicata verso l’eccesso di pathos, i sentimenti incontrollati. Non infiammabile, non infiammava mai: ragionava, con un piglio quasi anglosassone molto raro dalle nostre parti. Una “freddezza” continuamente corretta dallo humour, dall’intelligenza, dall’amore per la realtà.

Leggendo il suo Liù, che è quasi un testamento intellettuale, si capisce che molto del suo aplomb era dovuto a un profondo pudore. Il libro si chiude con una straordinaria mozione degli affetti, un lunghissimo elenco di amici e di luoghi, di persone e di città italiane, che adesso ci commuove profondamente. È un bell’elenco, in fin dei conti consolante, che racconta un’Italia migliore di come la pensiamo nel nostro ordinario malumore: sapeva vederla. Edmondo era un realista, ma non un pessimista. La fatica di capire, non certo la smania di giudicare, è stato il suo grande merito di intellettuale e di giornalista. Ci mancherà moltissimo, ci mancheranno i suoi nervi saldi, il suo rispetto per le piccole cose, la sua amicizia discreta, la misura di una scrittura che non si lascia mai sopraffare dalla realtà perché non la ripudia e non la bestemmia: la guarda, la vede, la accetta. Più difficile per noi accettare che Edmondo non ci sia più. Nel “labirinto del quotidiano”, sapere che uno come lui stava cercando di orientarsi ci faceva sentire meno soli, e meglio accompagnati. Guardando una partita di calcio, ascoltando una canzone di Guccini o discettando sulla crisi della sinistra, continueremo a sentirlo nostro coetaneo, nostro amico, nostro compagno di viaggio.

La Repubblica 12.04.10

******

“L’alto e il basso con naturalezza”, di MARIO CALABRESI

Edmondo Berselli aveva due grandi doti non comuni: l’ironia e l’originalità. Era una persona che valeva la pena conoscere e avere la fortuna di incontrare, anche solo per pochi minuti in mezzo a una strada. In quattro frasi riusciva a illuminare una giornata e a sintetizzare tutto quello che c’era da ricordare dei giornali di quella mattina. Saltava da un argomento all’altro, mescolando l’alto e il basso con naturalezza, spiazzandoti continuamente con i suoi guizzi; ti parlava di una canzone, poi scartava sulla politica per chiudere con un pettegolezzo fulminante. Sottolineava questa brillantezza e il suo estro con un’impercettibile irrequietezza del corpo e con un continuo muoversi in treno per l’Italia, quasi un modo per dare sfogo a tutta l’energia che attraversava la sua testa.

Aveva un modo di pensare libero, mai stereotipato: aveva le radici in una terra di valori solidi e pensiero unico come l’Emilia, di cui manteneva la cadenza dialettale come vezzo, ma a lui piaceva scartare e dissacrare, rompere il conformismo e salutarti con una battuta feroce che ti rimaneva in testa per tutta la giornata.

La Stampa 12.04.10

******
Diretto, ironico, soprattutto emiliano autentico. È morto lo scrittore Edmondo Berselli

Diretto, ironico, inimitabile. Tutto vero. Per Edmondo Berselli, però, basterebbe con un solo aggettivo: Doc. Emiliano autentico. Non solo le sue radici. Ma come le sue passioni. Il giornalismo, prima di tutto. Declinato nei suoi interessi e nei suoi linguaggi. La politica e cultura, certo. Ma anche la televisione e lo sport. Intellettuale e popolare. Emiliano, appunto.

L’ultima rubrica televisiva su l’Espresso l’aveva dedicata al commissario Coliandro, una fiction su un commissario un po’ pasticcione e poco “poliziesco” nel senso classico del termine: «Coriandolo» così lo aveva subito ribattezzato. Lui che degli italiani aveva imparato benissimo a riconoscerne e a raccontarne (senza mai diventare “bacchettone”) quegli aspetti caratteriali, che per molti sono vizi e che invece nella sua penna si trasformavano in coriandoli, pesanti ma coriandoli. Come quando sul nostro giornale, scrivendo di Sanremo, il 27 febbraio del 2000 fotografava l’«autobiografia di una nazione».

Nei suoi quattrocento articoli, scritti per «Il Sole 24 Ore», Berselli aveva saputo tenere insieme un’analisi fine e mai scontata sui temi alti con la diagnosi degli umori e dei mutamenti della cultura di massa. Alto e basso a braccetto. Scrittore e conduttore televisivo: nella sua ultima esperienza sul piccolo schermo aveva condotto per la Rai «Giù al Nord», un viaggio nella questione settentrionale raccontato anche attraverso la storia della televisione italiana.
La sua casa politica di riferimento era la sinistra. Eppure non è mai stato indulgente con tutti i leader che quello schieramento ha espresso. Berselli era così: emiliano e coriandolo.

Il Sole 24 Ore 12.04.10

******

“Addio a Edmondo Berselli, biografo acuto di un paese impazzito”, di Gianni Sofri

È difficile tratteggiare in poco spazio la figura di Edmondo Berselli, scomparso ieri a Modena, dopo una lunga malattia, a 59 anni. Intanto, Berselli era una figura di intellettuale poliedrico, non classificabile ed etichettabile. Era stato editore, giornalista, scrittore, ma senza permettere ad alcuna delle sue attività di diventare esclusiva, di fare di lui uno specialista, meno che mai accademico. Berselli scriveva sempre per tutti: non, come a volte accade, per i colleghi intellettuali. E tuttavia era capace di entrare di volta in volta nei campi della sociologia o della politologia, portandovi contributi originali e stimolanti. Nessuno ha saputo descrivere meglio di lui l’Emilia, sua regione di nascita, e pochi sapevano come lui descrivere l’evoluzione sempre più rapida di una società nazionale per la quale ogni giorno di più si rivelano inadeguati gli schemi tradizionali. Di quegli schemi appunto Berselli era insofferente, e li faceva oggetto di attacchi polemici più spesso ironici che aspri e gridati. In questo, era coerente con il suo carattere, beffardo e pungente, ma mai aggressivo.

Molto emiliano, verrebbe fatto di dire; e anche di vedere, dietro la sua ironia caustica eppure bonaria, la regione di Zavattini e di Fellini. Dei quali condivideva anche, in qualche modo, la nostalgia di un mondo perduto. Berselli era peraltro affascinato da ogni aspetto della cultura popolare, e questo gli permetteva di affiancare all’analisi politica più severa lo studio delle canzoni o quello del calcio: il libro su Mariolino Corso, Il più mancino dei tiri (il Mulino, 1995) resta, per la ricchezza delle suggestioni, uno dei suoi più belli. Ma i suoi libri sono tanti che non è possibile ricordarli tutti. Solo qualcuno, tra i più noti e felici: Canzoni, storie dell’Italia leggera; Venerati maestri; Sinistrati. Storia sentimentale di una catastrofe politica. E il più commovente di tutti: Liù. Biografia morale di un cane, che Edmondo ha scritto lo scorso anno in ospedale, quando già la malattia ne aveva minato la salute e le forze, ma senza fermare, anzi quasi accentuando la voglia di scrivere. Chi non lo sapeva direttamente, non poteva immaginare, leggendolo così di frequente, che Edmondo fosse gravemente malato. Io stesso, quando lo seppi, feci fatica a crederci. E rimpiango di non avergli scritto almeno una mail, per quel timore un po’ codardo che si ha in questi casi, di disturbare.

In realtà, negli ultimi tempi, la scrittura lo teneva in vita, e con l’approssimarsi della fine si faceva di giorno in giorno più essenziale. Nel libro su Liù si guarda alla realtà attraverso gli occhi di un labrador entrato con gioiosa prepotenza nella vita della famiglia, e la cui presenza attira l’attenzione sul mondo degli affetti e dei semplici oggetti della vita quotidiana: quasi un messaggio di saluto, ultimo ma sereno. I libri di Berselli sono stati pubblicati inizialmente, e per molti anni, dal Mulino; poi, dal 2003, da Mondadori. Ma del Mulino Berselli fu non solo un autore, ma un collaboratore importante per molti anni. Vi entrò assai giovane, nel ’76, come correttore di bozze, e tre anni dopo vi fu assunto come redattore.

La sua carriera all’interno della casa editrice lo portò alla direzione dell’ufficio stampa, poi della rivista (fino al 2008). Ma in parallelo si svolse la sua attività di editorialista. Cominciò nel 1986 con La Gazzetta di Modena, per continuare poi con Il Resto del Carlino, Il Messaggero, La Stampa, Il Sole 24 ore. Alla fine degli anni novanta aveva incominciato a collaborare anche con l’Espresso e un po’ più tardi, sempre più intensamente, con la Repubblica. Edmondo lascia la moglie Marzia, grande, preziosa accompagnatrice di una vita.

L’Unità 12.04.10

******

“Berselli, la musica dell’Italia leggera. Canzoni per raccontare un Paese”, di KATIA RICCARDI

“QUEST’UOMO mi ha cambiato la vita”, ha detto di lui commosso Shel Shapiro, il cantautore e storico leader dei Rokes con il quale Edmondo Berselli ha passato questi anni scrivendo e raccontando gli anni Sessanta attraverso la musica che ne ha colorato il senso. Musica musa di eventi e versi per cantare la storia, e dargli un senso. Così Berselli ha descritto un Paese che non poteva essere sezionato, né diviso. Veloce, ironico, preciso e appassionato di musica tanto da scrivere libri sulle canzoni e sui cantautori. Di quelli che qualcosa avevano da dire, di quelli che avevano detto la loro opinione, cantandola. Guccini, che cantò la sua Modena, la “piccola città, bastardo posto” dove Berselli passò l’adolescenza. E poi le poesie De André, i fermimmagine di De Gregori, gli esperimenti di Battiato, il male di Tenco. Le gambe lunghe di Celentano anche. Berselli avrebbe potuto consigliare i mille dischi da avere, non l’ha mai fatto. Le liste restano liste senza parole. Nell’ultimo periodo gli anni Sessanta sono rientrati nella sua vita e dalla sua vita sono usciti di nuovo fuori graffianti, senza nostalgia. Berselli quegli anni li ha raccontati perché servissero a evidenziare il più cauto silenzio degli ‘Zero’. “Confesso. Mi arrendo senza condizioni” scrive su la Repubblica il 19 dicembre 2009. “Ammetto che non appena qualcuno accenna alla top ten delle preferenze, musicali, cinematografiche o letterarie, un velo oscuro precipita nella mia mente. Non ricordo nulla. Degli ultimi dieci anni, poi. Buio assoluto sugli Anni Zero (oppure anche zero assoluto sugli anni del buio). Mi sembra che niente degli ultimi anni possa essere ricordato”.

Non solo canzonette, Berselli era affascinato dalle canzoni vere. E così s’intitola un suo libro uscito nel ’99 e riedito in una versione più arricchita nel 2007. Canzoni. Storia dell’Italia leggera (ed. Il Mulino). La storia si può cantare, con Mina e il beat dei capelloni, con Mogol, Battisti, Vasco Rossi e Baglioni, fino a Max Pezzali. Era legato al beat perché “felicemente eclettico negli stili, nei suoni, nei colori, eclettico nei modi di comportarsi, di pensare, di agire” e Berselli raccontava atmosfere, pensieri e parole da cucire insieme a finezze analitiche e ritornelli pop. Nello stesso anno esce anche Adulti con riserva. Com’era allegra l’Italia prima del ’68 (ed. Mondadori), la prima versione di quello che in seguito proprio con Shapiro è diventato un progetto tridimensionale, uno spettacolo teatrale, un Dvd, un Cd. Da toccare, guardare e ascoltare. Perché oggi la parola scritta parla troppo piano. Un tempo Bob Dylan, Beatles e Rolling Stones erano in grado con la musica di muovere le teste, non solo a ritmo, anche in alto, verso la visione più assoluta di un sogno. A renderla reale, politica, come successe nel Sessantotto, quando le opinioni presero il sopravvento sulla fantasia. Eppure gli anni Sessanta restano una stagione di un’istante, un lungo istante che ha dato forma al futuro. Berselli ne ha parlato con affetto distaccato. Da giornalista, da osservatore, senza variazioni fantastiche. Ma attraverso fatti, linee precise, messaggi. Ecco Modugno che irrompe sulla scena musicale con “Volare”, mentre arrivano le inchieste di Giorgio Bocca sul Giorno. Tutto unito, un solo disegno, che suona, o che si contorce e che poi va anche a votare. Berselli ne ha descritto i colori dopo il grigiore dei Cinquanta prima di quello degli anni che viviamo. Oggi che la politica non nutre più alcuna fantasia di ribellione. La cultura di oggi resta il prodotto di quella accelerazione, di quello stato d’animo in cui sembrava, per la prima volta, che ci fosse spazio per un’attesa.

Non era un sognatore, ma Berselli i sogni li sapeva raccontare. E parlare con qualcuno che non fosse un ‘critico’ era importante anche per chi gli concedeva le interviste sapendo che la giusta distanza tra artista e giornalista lui l’avrebbe rispettata. Facendone la sua forza, penna contro plettro. Con ironia. “Noi giornalisti siamo una comunità di maldicenti privati e di elogiatori pubblici. Sparliamo dei personaggi famosi e ne scriviamo bene”, disse alla conferenza stampa di presentazione di un suo libro al Mulino. Berselli la musica la ascoltava senza criticarla. Il criticabile era solo un altro aspetto della società. Con Shapiro ha scritto Storie sogni & Rock’n’roll (2007 Promo Music – Corvino Meda Editore). La storia è diventata morbida con l’accento inglese del cantante dei Rokes, che l’ha riportata in vita a tre dimensione come oggi si usano gli occhialetti per andare al cinema. E i suoni che Berselli ha preso e messo in fila sono diventati gli strumenti per raccontare quel passato nato per essere usato contro il conformismo, le convenzioni e le abitudini. Nel 2009 la precisazione. Con …Sarà una bella società (2009 Promo Music – Corvino Meda Editore ) tornano più forti gli slogan e le strofe delle canzoni interrogano la nostra società. Quello di Berselli è un invito, lo è sempre stato. A ritrovare i pensieri e i sentimenti di allora per cercare, come ha scritto “nelle canzoni di oggi una consapevolezza altra, che ci aiuti a guardare al futuro”.

La storia non si ferma, non si è fermata mai. Era questo il bello, questo il gioco e Berselli raccontava il presente. Recessione, crisi, ogni cosa poteva avere un senso, lo stesso, vista da caleidoscopi diversi. Anche i Rokes piangono, scriveva nel 2009 su la Repubblica. Saper raccontare la storia usando pennarelli sempre diversi gli fece vincere la seconda edizione del premio “Viareggio Terzapagina”. Il riconoscimento istituito per ricordare la figura di Cesare Garboli che viene attribuito sulla base degli articoli di giornalismo culturale pubblicati sui più importanti quotidiani e riviste. Edmondo Berselli è stato scelto per i pezzi intitolati «Lambretta» e «Mamma», pubblicati su la Repubblica. Questa la motivazione: “con arguzia e sapienza di scrittura viene ricostruita la storia di due miti fondanti della cultura nazionale del dopoguerra”. Senza giudizio, apparente, Berselli ha cantato molto forte. Senza esagerare, senza stonare, senza lasciare scie di nostalgia. Nelle ultime righe di Adulti con riserva, scrive: “Anch’io voglio guardare con ottimismo al futuro. Abbinare un colore al senso delle cose che cambiano. Anch’io voglio continuare ad avere una speranza; o magari due o tre. Perché anch’io sono un bambino degli anni Sessanta. Perché anch’io sono un eclettico”.

La Repubblica 12.04.10

qui tutti gli articoli di Edmondo Berselli su L’Espresso