ALLE regionali 15 milioni di elettori non hanno votato. È l’astensione più elevata del dopoguerra, considerando tutte le elezioni di rilievo nazionale dal ’46 ad oggi (referendum esclusi). Ma il fenomeno ha subito una accelerazione significativa nella seconda Repubblica. Se consideriamo le 13 regioni dove si è votato due settimane fa, la partecipazione è scesa dall’87% nel 1994 all’81% nel 2008 – alle elezioni politiche (3 punti in meno rispetto al 2006). Dal 75% nel 1994 al 70 % nel 2009 – alle europee (5 punti in meno rispetto al 2004). Infine, dall’82% nel 1995 al 64% del 2010 alle regionali (8 punti in meno rispetto al 2005). Insomma, a seconda delle elezioni, tra 2 e oltre 3 (anzi, quasi 4) persone su 10, ormai, non votano. E il dato si allarga nelle elezioni amministrative dei comuni oltre 15 mila abitanti, dove, in caso di ballottaggio, tra il primo e il secondo turno la percentuale di votanti scende ulteriormente.
Da ciò la tentazione di evocare un “partito dell’astensione”, considerando il non-voto come un voto. Il primo in Italia, viste le dimensioni. Per usare una formula nota (di Mario Caciagli e Pasquale Scaramozzino): il “voto di chi non vota”. Tuttavia, è difficile ricondurre quelli-che-non-votano a “un” partito, visto che sommano componenti molto diverse e contrastanti. Vi si incontrano: (a) quelli che non votano per forza maggiore; (b) le persone marginali – apatiche e disinteressate; (c) quelli che esprimono protesta contro il sistema; (d) quelli che non si sentono rappresentati; (e) quelli che, al contrario, si fidano, chiunque vinca; (f) quelli convinti che il loro voto non conti; (g) e quelli che, invece, intendono usare il voto come “ammonimento” ai partiti – soprattutto di governo. Sfruttando, a questo fine, le elezioni amministrative o europee.
Insomma, l’area dell’astensione si è dilatata, ma ha assunto, al tempo stesso, significati molto diversi. Tanto che la quota degli astenuti “per forza maggiore” – un tempo prevalente – oggi appare ridotta. Mentre è cresciuta quella degli “intermittenti” (come li definisce Paolo Segatti). Che scelgono “se” votare a seconda delle occasioni. Non è, ovviamente, un fenomeno solo italiano. Anzi. L’Italia è tra i paesi europei dove l’affluenza elettorale resta più elevata. Tuttavia, nel nostro paese, questa tendenza, negli ultimi anni, è cresciuta in modo rapido e impetuoso. Per alcune ragioni, in parte specifiche.
a) Il rovesciamento e il rimescolamento continuo del sistema partitico. Il che ha reso sempre più difficile non tanto identificarsi, ma almeno “affezionarsi” a un soggetto politico, visto il turbinio di sigle, aggregazioni e leader. Pensiamo al Pd, al Pdl. Alla galassia della Sinistra. Unico partito ad aver mantenuto lo stesso marchio dai tempi della prima Repubblica: la Lega. Non a caso, il prodotto più riconoscibile sul mercato elettorale.
b) Il cambiamento e la diversità delle leggi elettorali hanno disorientato l’elettore. La logica maggioritaria del voto utile ha, inoltre, spinto a votare per un partito o un candidato competitivo. Quindi, non sempre – e sempre meno – per quello più vicino.
c) La personalizzazione dei partiti, il declino dell’identità a vantaggio della fiducia, della partecipazione a favore delle tecniche di marketing. Hanno reso i “prodotti” del mercato elettorale volatili e deperibili.
d) Il mutamento della società, del contesto culturale e del territorio. Sottolineato dal profondo mutamento territoriale dell’astensione. Se consideriamo le 20 province dove alle regionali recenti il fenomeno è cresciuto maggiormente rispetto alle europee del 2009, solo 2 sono del Sud (Crotone e Avellino). Le altre sono del Centro-nord e comprendono realtà a forte tradizione democristiana (Sondrio) ma soprattutto di sinistra (Livorno, Rimini, Pesaro Urbino, Siena). Zone ad alta partecipazione, anche per questo colpite – più delle altre – dall’astensione.
Non è più corretto, quindi, considerare il “voto” come la “regola”, trattando il “non-voto” come un comportamento “deviante”. Quasi fossimo ancora al tempo delle fedeltà di partito. Perché quel tempo è finito. E quelle fedeltà si sono erose profondamente. Se utilizziamo una scala che misura l’orientamento degli elettori verso i partiti (sondaggio di Demos, febbraio 2009, campione nazionale rappresentativo, 1000 casi), la quota di coloro che esprimono vicinanza – e quindi appartenenza esclusiva – verso un solo partito appare molto ridotta. Intorno al 10% del totale, mentre il 20% si dice lontano da tutti. La maggioranza, invece, è costituita da elettori “tiepidi”. Incerti fra diversi partiti. Rispetto ai quali si dicono – più che vicini – “non lontani”. Incerti anche “se” votare. Si tratta, peraltro, degli elettori politicamente più interessati e informati. Da ciò il declino del senso di appartenenza; la disponibilità a cambiare voto e partito. Anche senza salti di schieramento, visto che alcune fratture restano. Una, soprattutto: scavata da Berlusconi. Tuttavia, in caso di elezioni amministrative, anche queste fratture scompaiono. E nello stesso giorno, gli stessi elettori, in elezioni diverse, possono decidere di votare per candidati di schieramenti opposti. A Venezia, a Lecco, come in numerosi altri comuni: per la Lega alle regionali e, al contempo, per un sindaco del Pd. Non era così nella prima Repubblica, quando tutti – o quasi – votavano sempre e allo stesso modo, in tutte le elezioni.
Oggi, invece, un’ampia quota di elettori decide di volta in volta. Per chi e “se” votare. Ciò costituisce un problema soprattutto per i partiti maggiori, frutto di aggregazioni complesse. Con un’identità opaca. Poco presenti nella società. Il Pd. E a maggior ragione il Pdl: il più colpito alle ultime elezioni. Ma nessuno ne è immune. Perché nessuno dispone di un elettorato fedele, come i partiti di massa della prima Repubblica. Neppure la Lega. Che dal 1992 ad oggi ha visto oscillare le sue percentuali di voto – oltre che il numero di elettori. Dal 10% al 4%. Per poi tornare al 10%. Non è stata la fedeltà a favorirne la risalita degli ultimi anni. Semmai, la capacità della Lega di intercettare domande locali, rivendicazioni territoriali, sentimenti di incertezza. Oltre all’insoddisfazione verso gli altri partiti. Ma ora che governa a Roma, in Veneto e nel Piemonte sfruttare i vantaggi di chi fa la maggioranza e l’opposizione, al tempo stesso: le riuscirà più difficile.
Il tempo dell’elettore fedele è finito. Siamo nell’era dell’elettore scettico. Non è privo di valori, non è senza preferenze politiche. Ma ha bisogno di buone ragioni per votare un partito o un candidato. E prima ancora: per votare.
La Repubblica 12.04.10