Nei giorni scorsi è stato presentata al Senato una proposta di legge sul Contratto Unico d’Ingresso (CUI) come la proposta riferibile al professor Boeri per il superamento del dualismo del lavoro e della precarietà.
Leggendo il testo di legge sul CUI viene spontaneo dire che le operazioni di riscrittura dei diritti del lavoro dovrebbero almeno avere la decenza di non essere spacciate per un aiuto ai precari.
Nel testo proposto, infatti, rimangono tutte le forme di lavoro precario oggi presenti e, in più, si amplia l’utilizzo dei Contratti a termine (oltre 2 milioni e 300mila) introducendo anche la bizzarria di un criterio di reddito a giustificazione del termine (si può fare sopra i 25mila euro riproporzionati per i part time).
A questo si aggiunge il CUI come nuova forma di precarietà all’armamentario già esistente. Inoltre: a) I CUI sono possibili anche per le aziende che fanno licenziamenti o cassa integrazione potendo sostituire lavoratori tutelati con altri non tutelati.
b) Ogni rimando contrattuale alle parti sociali ha sulla testa una spada di Damocle lasciando, dopo pochi mesi, alle imprese la possibilità di fare ciò che vogliono.
c) Non si supera il dualismo di tutele tra piccole e grandi imprese ma si estende anche alle grandi imprese quanto previsto nei licenziamenti per le piccole aziende.
d) Il CUI è un periodo di prova di tre anni con licenziamento «ad nutum» perché privo di motivazioni.
e) Si inventa il salario minimo per legge sovrapposto ai contratti nazionali di lavoro. Se non è alternativo a quello previsto dai contratti a cosa serve? Non esiste al mondo un salario per legge che sia superiore a quello previsto dai contratti di lavoro. Il salario minimo non potrà, quindi, che essere più basso di tutti i salari contrattuali perché, in caso contrario, si metterebbero fuori mercato interi settori merceologici. Inserendo un salario minimo legale senza che i contratti abbiano in Italia valore «erga omnes» e non solo per i settori scoperti da contrattazione collettiva, come sarebbe stato ragionevole, si dà la possibilità a chi vuole evitare di applicare i contratti di lavoro di farlo liberamente rimanendo in regola con la legge perché applica il salario minimo.
f) Nella proposta di CUI si prevede un superamento dei rapporti parasubordinati facilmente aggirabile, perché unicamente legato a chi ha un reddito superiore ai due terzi con un unico committente ma se ha più datori di lavoro, oppure guadagna più di 30mila euro o se ha l’obbligo di iscriversi agli ordini professionali rimane precario a prescindere dalla qualità del rapporto di lavoro. Inoltre, se rientra nei limiti, l’azienda deve assumere il parasubordinato retroattivamente come fosse stato subordinato ma può licenziarlo nei tre anni perché lo assume con il CUI e senza garanzie.
Il Contratto Unico di Ingresso assomiglia, per taluni aspetti, alle proposte sulla flexsicurity ma solo con la flex e senza la parte security costituita dalla ricollocazione al lavoro e dalla formazione. Questa proposta non affronta il nodo che è la fuga dal «costo dei diritti», su cui si sono attestate molte imprese italiane producendo anche la perdita di vigore della nostra competizione.
Non si può prescindere, nel nostro Paese, da una proposta che protegga i lavoratori riducendo realmente i contratti precari,ma che, al contempo, dia forti incentivi economici alle imprese rendendo più conveniente e meno costoso rispettare i diritti.
Mi auguro che il Pd sappia scegliere altre soluzioni tra quelle già in campo senza mettere in concorrenza i diritti dei padri con poco credibili migliori condizioni dei figli
L’Unità 08.04.10
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Interviene dalle pagine de L’Unità dell’11.04.10 Pietro Ichino
Caro Direttore, intervengo per rispondere sia alla lettera a Michele Tiraboschi di m.m.v., sia all’articolo di Davide Imola pubblicato sull’Unità di giovedì scorso.Nessun dubbio sul fatto che dobbiamo inscrivere le riforme della regolazione dei rapporti di lavoro dentro una più generale “strategia alta” di crescita dell’Italia. Ma come possiamo pensare a una “strategia alta” che sostanzialmente rinunci a superare il dualismo del nostro mercato del lavoro?
La lettera a Tiraboschi di m.m.v., lavoratore “di serie B”, e ancor più le analoghe lettere che potrebbero scriverci i milioni di giovani lavoratori di serie C (“partite iva” economicamente dipendenti, ecc.), ci pongono questa domanda: “quale posizione ci riservate nel vostro progetto per dare maggior valore al lavoro degli italiani”? La risposta che finora siamo riusciti a dare a questa domanda è: parificazione dei costi del lavoro “atipico” rispetto a quelli del lavoro subordinato regolare e un modesto trattamento di disoccupazione in caso di cessazione del rapporto; ma, per il resto, mantenimento dell’esclusione dal campo di applicazione del diritto del lavoro. Come se trent’anni fa in Sud Africa si fosse risposto ai neri offrendo un ampliamento delle zone riservate a loro negli autobus e un miglioramento dei sedili, ma mantenendo per il resto il regime di apartheid.
Questa è sostanzialmente la risposta che diamo a milioni di “atipici”, alle nuove generazioni di lavoratori, se rimaniamo fermi sulle vecchie posizioni. Qualche piccola concessione, ma non la soluzione del problema.
Il disegno di legge di Paolo Nerozzi (n. 2000/2010) e i miei (n. 1481 e 1873/2009) si propongono invece proprio questo: un diritto del lavoro per le nuove generazioni che segni la fine del regime di apartheid. Non toccano l’articolo 18 per chi oggi ne gode: nessuno vedrà modificato il regime di tutela oggi goduto. Questi progetti intervengono soltanto sui rapporti di lavoro destinati a costituirsi da qui in avanti, offrendo a tutti i lavoratori in posizione di dipendenza economica (proprio tutti, compresi quelli che oggi sono a “partita iva”) l’articolo 18 contro le discriminazioni e contro il licenziamento disciplinare ingiustificato, e ridisegnando soltanto la tecnica di protezione per il licenziamento di natura economica od organizzativa. Il progetto Nerozzi applica questo regime per il licenziamento economico soltanto nei primi tre anni del rapporto; il mio progetto lo applica invece stabilmente, ponendo a carico dell’impresa una protezione economica per il lavoratore licenziato, ai livelli massimi che si offrono oggi nello scenario internazionale. Dunque, drastico ampliamento del campo di applicazione dell’articolo 18 per la parte relativa a discriminazioni e licenziamento disciplinare, e introduzione, nello stesso campo allargato, di una protezione forte contro la perdita del posto di lavoro per ragioni economico-organizzative; davvero possiamo chiamare questo, come fa Davide Imola, “una nuova forma di precarietà”? Come si fa a sostenere che questa scelta comporterebbe una riduzione dei diritti per chi oggi ne gode, quando invece queste posizioni non verrebbero neppure toccate? E come si fa a sostenere che non ne deriverebbe alcun vantaggio per gli attuali “atipici”, quando invece d’ora in poi essi, tutti, si vedrebbero estendere un insieme di protezioni che si colloca ai livelli più alti su scala mondiale? Ogni progetto è perfettibile, ovviamente; ma occorre che incominciamo a discuterne in modo più sereno.
Un’ultima osservazione, questa riferita soltanto al mio progetto di riforma e non al progetto Nerozzi. Uno dei problemi cruciali per il rilancio dell’economia italiana è quello di favorire lo spostamento di investimenti e lavoro dai settori in declino a quelli che hanno maggiori potenzialità di sviluppo, azzerando i costi sociali di questo trasferimento. La riforma che propongo mira ad agevolare la scelta di ristrutturazione (sottraendola a una verifica giudiziale dall’esito comunque aleatorio e della durata di molti anni), ma mira al tempo stesso a responsabilizzare fortemente l’impresa circa il sostegno del reddito dei lavoratori coinvolti e la loro ricollocazione. I lavoratori di Termini Imerese, o di Eutelia, e i tanti altri che oggi rischiano di perdere il posto per chiusura o ridimensionamento della loro azienda, ma anche tutti gli attuali lavoratori di serie B o di serie C, sono più garantiti dal regime attuale, o da un regime che offre a tutti una protezione forte contro le discriminazioni e, in caso di licenziamento per motivi economici, senza bisogno di giudici e avvocati, obbliga in ogni caso l’impresa a offrire loro servizi efficienti per la ricollocazione e comunque a erogare loro un trattamento complementare di disoccupazione di livello scandinavo, che copra fino a tre anni dal licenziamento?