Il Presidente Napolitano ha rinviato alle Camere la legge di riforma del lavoro approvata il 3.03.2010. Una normativa che, ad una prima analisi, presenta due caratteri fondamentali.
Il Presidente Napolitano ha rinviato alle Camere la legge di riforma del lavoro approvata il 3.03.2010. Una normativa che, ad una prima analisi, presenta due caratteri fondamentali: a) rafforzare la posizione dell’imprenditore e ridurre i diritti dei lavoratori; b) flessibilizzare ulteriormente il rapporto di lavoro senza riformare il diritto sostanziale, ma con “una discutibile linea di intervento legislativo – basato sugli istituti processuali piuttosto e prima che su quelli sostanziali” (sono parole del Presidente).
Una legge “ipocrita” dunque. E non è un caso che la CGIL e molti giuristi hanno sottolineato come la riforma, con il riferimento all’arbitrato equitativo, intendesse depotenziare l’art. 18 dello statuto dei lavoratori, costringendo alcuni sindacati ed il governo ad intervenire per escludere “l’abrogazione di fatto” della tutela reale. Lo sbilanciamento della nuova normativa a favore dell’impresa è dimostrato, tra l’altro, dalla valorizzazione della autonomia individuale, che a volte è messa in concorrenza con quella collettiva o alla quale, in altri casi, sono attribuiti poteri fondamentali (come in materia di arbitrato). Un accresciuto rilievo della volontà delle parti del rapporto che é effettuata al momento dell’assunzione “nel quale é massima la condizione di debolezza della parte che offre la prestazione di lavoro” (sono ancora parole del Presidente), a riprova di questa volontà di limitare i diritti dei lavoratori.
I rilievi di Napolitano, riferiti in particolare all’arbitrato, sono una pesante bocciatura di una riforma che persegue l’obiettivo di deflazionare il contenzioso senza garantire la effettività e volontarietà della scelta del lavoratore di affidarsi ad arbitri. Essa, inoltre, consente il ricorso all’equità che non assicura il rispetto di diritti fondamentali del dipendente, molti dei quali sono di rilievo costituzionale e comunitario. Il Presidente, poi, critica anche la mancata definizione, da parte della legge, dei diritti da tutelare con norme imperative o da demandare alla contrattazione collettiva, il cui ruolo, tra l’altro, é svilito dalla funzione suppletiva del Ministro del Lavoro (che si sostituisce alla contrattazione collettiva se questa, entro 12 mesi, non regola la materia arbitrale).
Il governo e la maggioranza parlamentare intendono introdurre modifiche che non alterano la struttura del nuovo istituto. Quando conosceremo le novità le valuteremo. Tuttavia la possibilità di inserire, al momento dell’assunzione, una clausola compromissoria che consenta l’arbitrato equitativo dovrebbe rimanere immutata. In questo caso, tuttavia, i dubbi di costituzionalità sollevati da Napolitano sarebbero riconfermati. Infatti, al momento dell’assunzione, la volontà del lavoratore, anche se effettiva, non è libera, perché pesantemente limitata da “un’ovvia condizione di debolezza” (secondo il Messaggio del Presidente), che non potrebbe certo essere rimossa dall’assistenza di un organo di certificazione (anche qui riprendo l’opinione di Napolitano). Ne deriva che l’arbitrato non sarebbe “volontario” ma di fatto “obbligatorio” e, quindi, in contrasto con una costante giurisprudenza costituzionale. Quest’ultima, tra l’altro, ha sostenuto che “la giustizia per arbitri dà risultati particolarmente soddisfacenti quando le parti si trovino in posizione di relativo equilibrio. Il che non è nel rapporto di lavoro, ovvero tra due soggetti di forza economicamente diversa”. Inoltre, affidare agli arbitri un giudizio equitativo, significa abdicare per il futuro a molti diritti inderogabili di legge o di contratto collettivo. E infatti, il riferimento ai principi generali dell’ordinamento (che nella normativa rinviata alle Camere limitano la cognizione arbitrale) dovrebbe garantire i diritti che hanno immediato rilievo costituzionale o comunitario, ma non quelli privi di tale fondamento (come sottolinea anche il Presidente, secondo il quale il rispetto dei principi generali “non appare come tale idoneo a ricomprendere tutte le ipotesi di diritti indisponibili”). Tuttavia questo atto abdicativo di diritti indisponibili ancora non sorti ed acquisiti dal lavoratore non sembra compatibile con il nostro assetto costituzionale (come più volte sottolineato dalla giurisprudenza della Cassazione). In realtà, l’arbitrato così concepito potrebbe essere legittimo solo in rapporto a situazioni soggettive già entrate nel patrimonio giuridico del lavoratore ed in relazione a singole controversie. Fermo restando che, anche in questo caso, l’equità non potrebbe incidere sui diritti di derivazione costituzionale o comunitaria.
Tuttavia, è proprio il riferimento all’equità ad essere difficilmente comprensibile. L’arbitrato può indubbiamente costituire una valida alternativa alla giurisdizione statale quando, in primo luogo, sia autorizzato dall’autonomia collettiva, che ne definisca limiti e procedure. Un intervento, questo, reso necessario sia per rimuovere la condizione di debolezza del singolo lavoratore, sia per superare il principio secondo il quale l’arbitrato non opera per i diritti indisponibili (art. 816 cpc). Inoltre, perché abbia successo, è necessario che: a) sia celere; b) sia affidato a soggetti professionalmente competenti; c) sia gratuito per il lavoratore; d) sia vincolato al rispetto dei diritti inderogabili di legge e di contratto collettivo (che, se violati, dovrebbero consentire l’impugnazione del lodo dinanzi al Tribunale). Quest’ultimo aspetto è di particolare importanza. Il valore aggiunto dell’arbitrato é di essere un’alternativa funzionale al giudice ordinario sotto il profilo della competenza, velocità e dei costi, consentendo così di avere “giustizia” con un canale alternativo. Non si comprende, allora, perché dovrebbe essere basato sull’equità e non sugli stessi limiti di cognizione della giurisdizione statale, dove il giudice utilizza la valutazione equitativa in una serie limitata di casi e non come strumento generale di risoluzione delle controversie. Senza dimenticare il paradosso di un giudizio di equità in una materia, come quella del lavoro, caratterizzata da molti diritti indisponibili rispetto ai quali l’arbitrato in generale è visto con sfavore dal legislatore (art. 806 cpc). Con la conseguenza che, ad esempio, sono vietati arbitrati in materia societaria – dove sono in gioco soprattutto interessi patrimoniali – su questioni che hanno ad oggetto “interessi della società o che concernino violazione di norme poste a tutela dell’interesse collettivo dei soci e dei terzi” (Cass. 6 luglio 2000, n. 9022). Mentre, al contrario, l’equità dovrebbe costituire lo strumento fondamentale di giudizio nel contratto di lavoro, dove l’indisponibilità dei diritti è un dato fisiologico e ricorrente.
L’accelerazione dei tempi di risoluzione delle controversie e la deflazione del contenzioso sono obiettivi importanti, ma devono essere realizzati nel rispetto dei “principi della volontarietà dell’arbitrato e della necessità di assicurare una adeguata tutela del contraente debole” (come ha sostenuto il presidente della Repubblica) e non come “grimaldello” per scardinare le tutele garantite al lavoratore.
La finalità della riforma rinviata alle Camere sembra invece essere proprio questa. Ed ho l’impressione che il monito del Presidente della Repubblica non sarà ascoltato, anche perché Napolitano utilizza concetti, come quello di “contraente debole”, che sembrano ormai estranei al dibattito di una parte del mondo del lavoro. Si è diffusa, infatti, l’idea di equiparare il lavoratore a tutti i normali soggetti negoziali, secondo una linea di pensiero che si fonda su un singolare rovesciamento della realtà, caratterizzata dalla diffusione di molti contratti flessibili (ad alto livello di precarietà) e di elevata disoccupazione in alcune aree del nostro paese che enfatizzano la debolezza contrattuale del lavoratore. La forza del Messaggio di Napolitano è soprattutto nel voler ristabilire la realtà dei fatti, al di là di suggestioni che, sotto la patina della “modernizzazione” del diritto del lavoro, intendono invece ribadire ideologie antiche ed in contrasto anche con l’assetto giuridico espresso nella nostra Costituzione.
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