Mentre infuriava una campagna elettorale in cui non si è pressoché mai parlato dell’Italia nella crisi e ancor meno di quale progetto oltre la crisi, i ricercatori del consorzio universitario AlmaLaurea rendevano noti dati sulla condizione occupazionale dei laureati che dovrebbero essere invece al centro del dibattito politico. I risultati della dodicesima indagine confermano la difficoltà del nostro sistema economico a valorizzare il capitale umano, nonostante in Italia sia un bene molto scarso. La percentuale dei laureati sulla forza lavoro è infatti già molto inferiore a quella degli altri paesi sviluppati, circa la metà della media europea e un terzo rispetto ai paesi fondatori. Inoltre i giovani italiani sono pochi, perché da noi il crollo della natalità è stato superiore a quello degli altri paesi avanzati (i 19enni dal 1984 al 2009 sono diminuiti del 38%) e la quota dei laureati di questa scarsa popolazione giovanile è molto inferiore a quella degli altri paesi sviluppati (tra 25 e 34 anni gli italiani laureati sono il 19% contro il 34% della media Ocse). In una situazione del genere i pochi giovani laureati dovrebbero andare a ruba e le imprese dovrebbero contenderseli a suon di alti salari, posto fisso e ogni altro genere di benefit. Invece, ci spiegano gli autori delle indagini AlmaLaurea, non è così, i laureati italiani, anche quelli dei settori tecnico-scientifici, ci mettono almeno cinque anni per sistemarsi, rimangono a lungo precari e sono tra i più malpagati a livello europeo.
La ragione è che la domanda di laureati proveniente dal sistema produttivo italiano (95% di piccole imprese con specializzazioni produttive spesso tradizionali) è molto inferiore a quella degli altri paesi sviluppati. Secondo i dati i Excelsior-Unioncamere il mercato del lavoro nazionale prevede di aver bisogno di 12 laureati su 100 nuove assunzioni, mentre quello Usa ne prevede 31. Gli effetti della crisi stanno inoltre peggiorando la situazione.
L’ultimo Rapporto AlmaLaurea, rispetto a quello dell’anno precedente appena sfiorato dalla crisi, ci presenta una situazione decisamente preoccupante. La disoccupazione colpisce soprattutto i giovani, senza risparmiare i più preparati: aumenta, infatti, sensibilmente tra i laureati triennali dal 16,5 al 22 per cento e tra gli specialistici quinquennali dal 14 al 21%, compresi gli specialistici quinquennali a ciclo unico (medicina, architettura, veterinaria, giurisprudenza, ecc.) dal 9 al 15 per cento. La domanda delle imprese non si contrae solo per i laureati dei percorsi umanistico-sociali, ma anche per gli ingegneri (-38%) e perfino per gli ingegneri industriali (-46%). Non solo, diminuisce il lavoro stabile e le retribuzioni, già modeste (1100 euro ad un anno dalla laurea), perdono anche potere d’acquisto.
Se a questo aggiungiamo i dati sulla diminuzione delle iscrizioni all’università (meno 9% negli ultimi cinque anni) e la riduzione dal 2008 anche del numero dei laureati (erano in costante crescita fino al 2005 poi stabili fino al 2007), appare evidente che siamo di fronte ad un vero e proprio circolo vizioso destinato a far declinare il paese: il sistema formativo offre meno laureati rispetto agli altri paesi sviluppati, ma il sistema produttivo ne domanda ancor meno disincentivando, a sua volta, i giovani ad investire in conoscenza e il sistema formativo ad essere più efficace.
In questo quadro già difficile per il futuro del paese, le scelte politiche del governo assecondano il circolo vizioso del declino: con le parole – Tremonti dice che i laureati sono anche troppi e Gelmini approva l’aumento delle bocciature – e soprattutto con i fatti, i tagli all’università (già oggi nell’Europa a 27 il finanziamento pubblico all’università è superiore solo a quello della Bulgaria) e alla scuola pubblica disegnano un sistema formativo che diventa ulteriormente più povero e più piccolo, che si adegua all’attuale bassa domanda di capitale umano proveniente da un sistema produttivo insufficientemente orientato all’innovazione.
Per rompere questo circolo vizioso occorre invece una politica industriale che incentivi e sostenga il settore strategico della ricerca e sviluppo al quale l’Italia ha destinato l’1,2% del Pil nel 2007 (il contributo delle imprese è dello 0,6, mentre nei paesi più avanzati è almeno il doppio), risultando così l’ultimo dei paesi Ocse. Una politica economica che promuova i processi di innovazione rappresenta infatti la leva principale per aumentare la domanda di capitale umano qualificato e, di conseguenza, costituisce lo stimolo più potente nei confronti del sistema formativo affinché migliori i suoi livelli di efficacia e qualità. Contemporaneamente una politica formativa che punti ad aumentare il numero dei laureati, riducendo progressivamente il pesante gap che ci separa dagli altri paesi sviluppati, rappresenta il migliore sostegno offerto alle imprese che intendono investire per riposizionarsi in modo competitivo nell’economia globale. Infine occorrono politiche territoriali che realizzino l’interazione tra imprese e università/enti di ricerca sulla base di patti territoriali per lo sviluppo promossi da istituzioni locali e parti sociali al fine di:
– favorire il trasferimento di nuove conoscenze nei sistemi produttivi,
– ridurre il mismatch fra le competenze possedute dai laureati e quelle richieste dal mondo del lavoro,
– diffondere le buone pratiche che, come confermato da dati dell’indagine, favoriscono l’occupazione dei laureati (stage, tirocini, inserimenti in azienda di dottori in ricerca, spin-off …).
Queste dovrebbero essere le priorità per un paese che non si rassegna a trovarsi all’uscita dalla crisi in posizione marginale nel contesto internazionale e che si fa carico, come auspicato da Andrea Cammelli nella relazione di presentazione del XII Rapporto, “dell’emergenza giovani evitando che alcune generazioni di ragazze e di ragazzi preparati (ce ne sono più di quanti i laudatores temporis acti non ripetano tutti i giorni!) restino senza prospettive e mortificati fra mercati del lavoro che non assumono ed un mondo della ricerca privo di mezzi”.
Scuola Oggi 09.04.10