Il decennio appena trascorso ha dimostrato (ed è l’ennesima volta) che dare più potere alle donne è la chiave per risolvere molti problemi all’apparenza intrattabili. La povertà nei Paesi in via di sviluppo sembrava impossibile da sradicare finché il micro-credito non ha cominciato a vedere milioni di donne a basso reddito e abbandonate a se stesse come potenziali imprenditrici. Coinvolgere le donne africane nelle decisioni sulle produzioni agricole ha reso possibili nuove pratiche agricole eco-sostenibili. L’esplosione demografica è diventata controllabile quando le donne hanno avuto accesso alle opportunità di istruzione e di business al pari della contraccezione.
Le tensioni e i conflitti che circondano l’immigrazione in Europa potrebbero essere un altro problema per il quale dare più potere alle donne recherebbe con sé la soluzione?
In una recente visita a Copenhagen per la giornata internazionale della donna ho preso parte a molte discussioni che replicavano altre già avute in varie parti d’Europa: cittadini di ogni sezione dello spettro politico si confrontavano a fatica con la questione dell’immigrazione non-europea e le tensioni culturali che ne sono seguite. Che cosa significa essere danesi, tedeschi o francesi in presenza di milioni di nuovi arrivati, molti dei quali vengono da società non democratiche?
Alcune di queste ansietà esprimono puro razzismo; ma altre no. Che cosa significa «integrazione» e come la si raggiunge senza perdere alcuni dei più riveriti valori della società civile? Questa non è necessariamente una domanda xenofoba: una società post-illuminista, dotata di stampa libera e di un sistema legale evoluto, è una cosa preziosa, i cui valori non dovrebbero essere sacrificati al relativismo morale del politicamente corretto.
La questione si è fatta più pressante con l’arresto in Irlanda di presunti jihadisti provenienti da diversi Paesi e accusati di pianificare l’omicidio del vignettista svedese che ha caricaturato Maometto come cane. In tutta Europa la discussione sale di tono e le piattaforme politiche anti-immigrazione guadagnano consenso in società per altro verso liberali, dalla Germania alla Francia fino alla tradizionalmente inclusiva e tollerante Danimarca.
Poi sono stata testimone del prototipo di una possibile soluzione. Ho incontrato Elizabeth Moller Jensen, direttrice del Kvinfo, «Centro danese per l’informazione su genere, eguaglianza ed etnicità». Uno dei suoi molti programmi innovativi sta già dando risultati in termini di genuina integrazione delle famiglie di immigrati nella società danese. Indirizzandosi alle donne immigrate – e rivolgendosi a loro come potenziali leader, anziché come ad acquiescenti potenziali cameriere o fornitrici di altri servizi – il Kvinfo ha reso possibile alle famiglie di queste donne fruire dei benefici della società civile aperta in cui si trovano a vivere.
Il Kvinfo ha avviato il primo «programma di avviamento» per donne immigrate nel 2002. Nel 2010 questo progetto ha avuto 5 mila partecipanti, ha vinto premi e riconoscimenti internazionali per le migliori pratiche di integrazione e ora comincia a essere replicato non solo in tutta la Danimarca ma anche in Norvegia, Spagna, Portogallo e Canada. Il programma associa donne immigrate e rifugiate in una relazione uno-a-uno con donne che sono leader affermate a tutti i livelli della società danese.
L’appaiamento non è occasionale. Un accurato processo di valutazione associa gli interessi e i fini delle donne da ambo i lati, e questo ha già fruttato dividendi straordinari. Donne che erano giornaliste, ingegneri o scienziate nei loro Paesi di origine – e che in Danimarca non potevano trovare lavoro neanche come cassiera – sono state associate a controparti danesi, e adesso sono al lavoro nelle professioni, nelle scuole, nella ricerca scientifica eccetera.
Ma anche per le donne arrivate senza istruzione o qualifiche professionali sono stati creati specifici piani di azione. Ognuna ha appreso dalla rispettiva mentore quali scelte ci sono, come procedere, e che cosa fare per raggiungere i suoi obiettivi. Con l’ingresso nel mondo del lavoro la loro competenza linguistica è cresciuta, i redditi sono aumentati, e i loro figli hanno visto coi loro occhi queste donne assumere un ruolo reputato socialmente e valutato economicamente. Così, anziché sentirsi condannati indefinitamente allo sfruttamento e a una vita ai margini della società nordeuropea – che li avrebbe resi vulnerabili alla propaganda degli estremisti – i figli di queste donne stanno sviluppando una completa familiarità con la società civile danese, bene informati sulle opportunità di istruzione e di affermazione professionale, e pieni di speranza anziché cinici. Dando potere alle donne le famiglie intere si sono elevate ed «europeizzate» nel migliore dei termini.
Io rimango spesso sorpresa da come anche gli europei meglio intenzionati usino eufemismi per riferirsi agli immigrati: dicono di volere che si sentano «bene accolti» o «a loro agio». Allora io domando: «ma volete che si sentano francesi, o tedeschi, o norvegesi?». Per essere pienamente integrati, i musulmani e gli altri nuovi arrivati in Europa non devono essere accolti come visitatori perpetui – per quanto graditi – ma piuttosto come membri della famiglia, secondo il modello americano (o almeno secondo quanto tale modello aspira ad essere). Come dice la Moller Jensen, «voglio che questi bambini si sentano danesi». Man mano che la «generazione Kvinfo» crescerà con genuina partecipazione alla società civile danese, sia la Danimarca sia questi giovani stessi beneficeranno del fatto di guardare al mondo come danesi, e non come ospiti.
Copyright Project Syndicate 2010
La Stampa 06.04.10
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