Perché le facoltà telematiche sono diventate così tante in poco tempo? E come mai sette su undici sono state autorizzate in appena cinque mesi? Dagli imprenditori alle banche la proprietà passa spesso di mano. Ma quali interessi e capitali ci sono davvero dietro a questo affare? Sono decine i concorsi indetti ma in realtà i docenti idonei non vengono assunti quasi mai a favore di personale a contratto.
Dovevano essere la grande sfida dell´e-learning italiano, la rete di atenei che avrebbe permesso anche al nostro paese di entrare a testa alta nel mondo delle università on line, e dell´insegnamento a distanza. Invece, a sette anni dalla loro nascita, istituita con il decreto ministeriale del 17 aprile 2003 firmato dal ministro dell´Istruzione Letizia Moratti e dal ministro dell´Innovazione Tecnologica Lucio Stanca, gli atenei telematici italiani sono diventati a tutti gli effetti un “sistema parallelo” per ottenere a pagamento una laurea in tempi da record, accorciando corsi di studio e collezionando crediti formativi. Un metodo rodato ed oliato per diventare dottori a caro prezzo ma con il minimo dell´impegno. Un anno di studi come sconto garantito, 24 mesi contro i 36 necessari, esami senza rischi e tesi compilate in fretta. Un business da oltre 100 milioni di euro l´anno, senza contare i proventi di master e specializzazioni.
In Italia le università telematiche sono 11, il numero più alto di tutta Europa, dove in ogni nazione ne esistono una o due soltanto, ma nonostante siano così numerose nell´anno accademico 2007/2008 tutte insieme contavano appena 13.891 studenti, con una percentuale del 90,7% di immatricolati oltre i 25 anni d´età. Universitari “maturi” eppure con il primato delle “lauree precoci”, quelle ottenute abbreviando cioè il corso degli studi, con il concetto di “laureare l´esperienza”. E in alcuni atenei, l´Unisu ad esempio, Università delle Scienze Umane “Niccolò Cusano” con sede a Roma, il numero dei laureati precoci ha raggiunto nel 2008 la quota top del 69,8% di tutti gli allievi, con la conseguenza che in quell´università soltanto il 30,2% degli iscritti è diventato “dottore” nei tempi canonici.
Ma da che cosa nasce questa anomalia italiana, verso la quale lo stesso ministro Gelmini ha annunciato “tolleranza zero”? Come mai, pur essendo arrivati ultimi in Europa nella creazione dell´e-learning, gli atenei telematici sono poi diventati così numerosi in soli sette anni? Quanto valgono sul mercato del lavoro queste lauree? E soprattutto come mai ben 7 atenei su 11 sono stati autorizzati uno dopo l´altro in soli 5 mesi, dal gennaio al maggio del 2006, quando il secondo governo Berlusconi era ormai agli sgoccioli?
A queste domande hanno risposto di recente i nove membri del “Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario”, (Cnvsu) nove illustri docenti che nel loro rapporto sullo stato dell´università italiana 2010 hanno evidenziato, senza appello, i mali e i malcostumi (oggetto anche di inchieste giudiziarie come quella aperta dalla procura di Bari sull´ateneo “Giustino Fortunato” di Benevento), degli 11 campus telematici italiani. Alcuni dei quali legati a doppio filo, anzi stretta emanazione di famosi “centri di assistenza agli esami” come E-campus, ad esempio, filiazione universitaria del ricco e potente Cepu, con sede prestigiosa a Novedrate, in provincia di Como, nell´ex centro di formazione Ibm, o l´Unisu, che aveva alle spalle, come denunciarono per primi gli universitari del portale Studenti.it, Universitalia, istituto romano privato di preparazione agli esami. Strutture che in maniera più o meno dichiarata funzionano da “vasi comunicanti”, immettendo gli studenti in un circuito a pagamento dove l´università indirizza al centro di preparazione agli esami, e i tutor spingono poi verso l´ateneo on line a cui sono collegati. Con il risultato che se un´iscrizione ad un corso di laurea costa in media tra i 3 e i 4 mila euro l´anno, altrettanti ne servono per il “centro di assistenza” a quell´ateneo collegato. Così in media per una laurea in tre anni si arrivano a spendere 12 mila euro.
Una scorciatoia per la carriera
«Il vero problema è che le università telematiche, molte delle quali non avrebbero nemmeno i requisiti minimi per esistere, si sono trasformate in pochi anni in luoghi dove ottenere con facilità una laurea, che serve poi a farsi strada nella pubblica amministrazione. Con titoli del tutto equivalenti alle lauree statali sia come punteggio per i concorsi, che per gli avanzamenti di carriera», spiega Giovanni Azzone, docente al Politecnico di Milano, vicepresidente del Cnvsu. Un´ingiustizia dunque, tutta a discapito di chi per ottenere un titolo cum laude studia e si impegna. «Nella prima fase queste università – aggiunge Azzone – hanno potuto contare sul business dei “fuori corso”, gli studenti adulti che volevano migliorare la loro posizione lavorativa grazie anche alle convenzioni stipulate dagli atenei con enti pubblici, sindacati e aziende. E si spiega così, non appena entrò in vigore la legge Moratti-Stanca, la corsa all´accreditamento di atenei sponsorizzati da gruppi privati, verso alcuni dei quali noi avevamo dato parere negativo, ma che poi sono stati autorizzati lo stesso». Ed è questa secondo gli osservatori una delle anomalie italiane: la sfida dell´e-learning non ha portato alla creazione di una grande università telematica pubblica, come la Uned spagnola che ha 150 mila allievi, o la Open University inglese, che ne ha oltre 180 mila, ma alla creazione di tante piccole realtà con dichiarato scopo lucro. Una sorta pasticcio all´italiana, dunque, anche se gli studenti dal 2003 ad oggi sono aumentati del 900%, erano 1.529 nell´anno accademico 2004/2005, sono oggi circa 14 mila, un po´ meno dell´1% di tutto il sistema universitario.
Ma chi c´è dietro le università telematiche, dove il corso di studio avviene da casa con forum e videoconferenze e si frequenta la sede dell´ateneo soltanto per dare gli esami? Quali capitali? Quali interessi?
In realtà l´insegnamento a distanza, presente fin dal 1970 in Inghilterra e da oltre trent´anni nel resto d´Europa, nasce nel nostro paese più come una corsa ad un ricco business, che come un metodo di studio universitario e di long life learning. Un´occasione mancata, soprattutto per gli studenti lavoratori, dopo lo smantellamento delle scuole serali. Ma basta scorrere i nomi dei proprietari di alcuni degli 11 campus italiani, spesso già mutati in pochi anni, per capire gli interessi in gioco.
I padroni degli atenei online
Alla fine del 2008 ad esempio, la famiglia Angelucci rileva attraverso la Tosinvest Italia il 60% della proprietà di Unitel, l´università telematica di Milano, creata nel 2006 dalla Fininvest e da Mediolanum comunicazione. La Unitel dunque entra nell´impero dei re delle cliniche. La Roma Mercatorum è invece espressione diretta espressione delle Camere di Commercio Italiane, mentre la Gugliemo Marconi, la più frequentata tra le università telematiche, con oltre 8000 allievi e 30 corsi di laurea, sorge con l´apporto di Wind e di un gruppo di banche. Dietro il discusso ateneo Giustino Fortunato di Benevento, un unico corso di laurea attivato in Giurisprudenza, rettore Augusto Fantozzi, c´è la onlus “Efiro”, dell´imprenditore Angelo Colarusso, già patron di diverse scuole di recupero esami, mentre la napoletana Pegaso è al 100% di proprietà di Danilo, Raffaele e Angelo Jervolino, già presenti in altri istituti privati partenopei. Diverso il caso della Uninettuno, fondata da un consorzio di università pubbliche con un team di aziende, Rai, Telecom e Confindustria, E un consorzio di 5 università si ritrova anche dietro la Iul di Firenze, Italian University on Line, unica università telematica pubblica in Italia.
Alla proliferazione degli atenei on line aveva già cercato di mettere un freno il ministro della Ricerca e dell´Università Fabio Mussi, imponendo un tetto alla quantità di crediti formativi limitandoli a 60. E infatti gli accreditamenti degli atenei on line si fermano effettivamente al maggio del 2006, alla fine dell´era Moratti, quando il ministero della Ricerca prova a rendere più difficili e selettivi i criteri di autorizzazione delle cosiddette open university. Vietando ad esempio la possibilità di attivare lauree a distanza per le professioni sanitarie. Ma le irregolarità di gestione sono evidenti fin da subito.
Come mai ad esempio le università telematiche indicono decine di concorsi a cattedra e poi non assumono quasi mai i docenti idonei, creando un vero e proprio esercito di “prof fantasma”? Quali sono i rapporti di convenienza, non sempre limpidi, con le università statali? Quali ancora gli illeciti veri e propri?
È dal meccanismo dei concorsi che bisogna partire, per cercare di decodificare quello che Paolo Ferri, esperto di e-learning, docente di Scienze della Formazione all´università Bicocca di Milano e anche presso la telematica Iul di Firenze, definisce «il mercato delle lauree parallele, dove spesso l´università on line è la scorciatoia facile e a pagamento per chi non riesce ad affrontare l´università statale». Con l´aggiunta, dice Ferri, che a volte «questo meccanismo coinvolge anche i docenti di atenei pubblici che insegnano a contratto nelle telematiche e che qui si comportano in modo più spregiudicato… ».
Lo scandalo delle cattedre
Un dato per tutti. L´inchiesta aperta dalla procura di Bari su una serie di concorsi indetti dall´ateneo on line Giustino Fortunato di Benevento, e che ha portato all´iscrizione nel registro degli indagati di alcuni professori della stessa università. L´indagine, su cui lavora dal 2008 il sostituto procuratore Francesca Romana Pirrelli, parte da un dottorato di ricerca in “Diritti umani, globalizzazione e libertà fondamentali”, bandito dalla statale di Bari, ma finanziato dalla telematica Giustino Fortunato. E la vincitrice risulta essere una delle proprietarie della Giustino Fortunato, e che dunque quel dottorato ha finanziato di tasca propria. Un meccanismo sospetto agli occhi della Procura, che apre un´inchiesta, conferma indiretta dei rapporti spesso opachi che legano gli atenei statali a quelli on line, utilizzati come bacino di concorsi per docenti che poi, attraverso una rete di favori ed amicizie, vengono assunti nelle università tradizionali.
Partendo dal dato che «dei 222 docenti di ruolo necessari a coprire i 74 corsi di studio attivati nell´anno accademico 2009/2010 oggi ne sono presenti soltanto 42», questo vuol dire che in gran parte degli atenei a distanza, spiega Giovanni Azzone del Cnvsu, «per non affrontare l´onere economico dei docenti di ruolo, si lavora con personale a contratto, con numeri ridotti al minimo, che di certo non possono garantire l´offerta formativa promessa dai corsi di laurea pubblicizzati dall´ateneo».
I prof fantasma
Dunque molti di questi corsi sono fatti con scarsezza di mezzi e professionalità. Eppure le lauree così ottenute valgono quanto quelle statali. Ma il meccanismo è più sottile, ed è a scatole cinesi. A fronte dei numeri citati nel rapporto degli esperti del ministero, e cioè 42 docenti sui 222 necessari, «vi sono ben 164 posti banditi per concorso». Dove sono finiti questi “docenti fantasma”, come mai pur essendo stati dichiarati idonei non hanno poi avuto la cattedra nell´università telematica?
«Perché nessuno era in grado di fare il lavoro che serviva nella nostra università, non avevano competenze tecnologiche», taglia corto Alessandra Briganti, rettore della “Guglielmo Marconi”, nel mirino del Comitato di valutazione per aver indetto addirittura 53 concorsi in tre anni ma di aver assunto poi soltanto 9 “vincitori”, di cui 2 ordinari, 2 associati e 5 ricercatori. La realtà è invece nascosta tra le pieghe della legge, si legge nel dossier degli esperti del Cnvsu, «perché prevedeva che per gli atenei di nuova nomina si potessero computare nell´organico non solo i docenti effettivamente presenti, ma anche le procedure concorsuali bandite e non ancora concluse». Ossia ai numeri veri si potevano sommare numeri “ipotetici”.
«Ma questa è diventata la prassi diffusa – afferma Paolo Ferri – per non pagare i professori di ruolo e farli però apparire negli organici». Un inganno dunque. E accanto a questa improbabile statistica c´è appunto il ruolo degli accademici delle università statali. Pagati profumatamente e assai rappresentati negli organici delle telematiche. Al posto dei vincitori dei concorsi, i quali però vengono spesso chiamati dalle università statali. Un meccanismo di “reciprocità” insomma, per assicurarsi così cattedre e titoli, mentre la grande sfida dell´e-learning affonda tra illeciti e abusi.
La Repubblica 02.04.10
Pubblicato il 2 Aprile 2010