E’ diffusa l’opinione, anzi la certezza, che la campagna elettorale appena conclusa sia stata molto brutta: lo ripetono le principali cariche dello Stato, oltre a politici e giornalisti di varia provenienza. I veri temi non sarebbero stati affrontati: quelli che inquietano il cittadino localmente, nelle regioni o nei comuni in cui si vota. Sarebbero stati confiscati da temi non solo falsi ma fuorvianti: l’informazione televisiva, la battaglia su legalità e corruzione.
La Lega in particolare, che ha mostrato in queste settimane la forza del suo insediamento territoriale, vede confermata una tesi difesa da anni: se la democrazia italiana non funziona, è perché la politica e i mezzi d’informazione vedono la realtà attraverso una lente deformante, e non si sono adattati al sistema nuovo, non più centralizzato, del potere. In un sistema federale, competenze e poteri si disseminano, e quando si vota nelle regioni o nei comuni è di regioni e comuni che si deve parlare, non di argomenti generali come informazione e imperio della legge.
Questa forte convinzione potrebbe essere premiata dagli elettori: è probabile che il Nord ad esempio, compreso il Piemonte, condivida il disgusto verso lo spazio che nella campagna hanno preso questioni politiche generali, giudicate importanti a Roma ma non fuori Roma. Le questioni specifiche di cui si sarebbe dovuto parlare (sanità, lavoro, trasporti, effetti della crisi) sarebbero state confiscate da un tutto che col particolare non ha nulla a che fare e che a esso è fondamentalmente disinteressato. L’intera campagna non sarebbe che un immane escamotage, un trucco astratto e furioso usato per eludere le faccende veramente concrete.
Stupisce che analogo fastidio non sia stato suscitato dall’irruzione di temi considerati localmente decisivi dalla Chiesa, come aborto e fine-vita.
Anche se comprensibili, constatazioni così desolate non sono tuttavia giuste, né pertinenti. La perentorietà del lamento somiglia troppo, inoltre, a un ritornello: e sempre i ritornelli hanno un modo di ripetere l’identico che trasforma le verità in pensieri non chiarificatori ma martellati per diffondere conformismi. Il ritornello dice, in sostanza: «In Italia non si riesce più a parlare d’altro» se non di Annozero, di informazione più o meno indipendente, di legge più o meno osservata da governanti e governati. Un fossato si sarebbe aperto intollerabile fra discorsi autentici e discorsi avulsi come l’informazione o la legge. Anche i giornali non si sentono a posto con la coscienza quando non «parlano d’altro».
Il fatto è che quest’altro di cui si vorrebbe non parlare e che addirittura crea rimorsi ha invece rapporti strettissimi con i problemi locali, e non è affatto estraneo al vissuto di ciascuno di noi: cittadino dello Stato o cittadino che chiede i conti a governi regionali o comunali.
Non esiste, la famosa divaricazione tra mali veri e non veri: o si sanano tutti e due insieme, o tutti e due degenereranno infettandosi a vicenda.
Vediamo l’informazione, in primo luogo televisiva visto che i dati lo confermano: sia localmente che nazionalmente, gli italiani si informano soprattutto alla televisione, cosa che spiega d’altronde il rifiuto, più che quindicennale, opposto dal Presidente del consiglio a ogni limitazione del suo potere catodico. Non si tratta di sapere se con la tv si vincono o si perdono le elezioni. In questione è la società: la facoltà che le viene data di formarsi un giudizio conoscendo i fatti, la sua cultura della legalità, della tolleranza, della mente libera da slogan, ritornelli. Impossibile acquisire tale cultura se il cittadino non è bene informato. Se viene tenuto in una sorta di Kindergarten, davanti al quale si recitano giuramenti, e si ripetono aggettivi o parole («una grande grande grande grande riforma») come si fa con i bambini e le filastrocche.
In vari articoli scritti sul sito della Voce, Michele Polo, economista della Bocconi, denuncia questa infantilizzazione e respinge l’accusa, che gli viene rivolta, di sprezzare snobisticamente gli elettori, ritenendoli influenzabili e incapaci di giudizio: «Oggi gran parte dei cittadini si forma una opinione sui fatti principali e sull’operare della politica non già attraverso una esperienza diretta e personale, ma mediante i mezzi di informazione. In Italia, con un ruolo preponderante della televisione». A essere pericolante è il giudizio informato attorno a fatti non tenuti nascosti, ma resi pubblici. E che l’Italia sia più a rischio di altri lo si evince da dati precisi: «Tra le peculiarità italiane scrive Polo c’è una bassa abitudine alla lettura, che fa dei telegiornali di gran lunga la principale fonte di informazione. I due principali telegiornali serali, Tg1 e Tg5, raccolgono in media 6,4 e 5,3 milioni di telespettatori, mentre gli spettatori dei telegiornali sulle sei reti sono circa 19 milioni. I primi 5 quotidiani (Corriere, Repubblica, Sole 24 ore, Stampa, Messaggero) arrivano a circa due milioni di copie, corrispondenti a circa sei milioni di lettori.
In una recente indagine del Censis sulle elezioni europee del 2009 emerge come il 69 per cento degli elettori ha fatto ricorso ai telegiornali per formarsi una opinione in vista del voto, il 30 per cento ai programmi televisivi di approfondimento, il 25 per cento si è affidato ai giornali, il 5 per cento alla radio e solo un coraggioso drappello del 2 per cento ha utilizzato Internet». Proprio Tg1 e Tg5 sono accusate d’aver privilegiato enormemente il Pdl, nella campagna elettorale.
La legalità è il secondo tema apparentemente non essenziale ma invece essenzialissimo a qualsivoglia livello: locale, nazionale, europeo, mondiale. Sono tante le cose che da noi non funzionano per la corruttela epidemica, per l’evasione fiscale che s’estende, per l’impunità di colletti bianchi collusi con le mafie. Chi è fuori da simili «giri» (come li chiama Gustavo Zagrebelsky su Repubblica) non sa come ricominciare vite lavorative, imprese malferme, speranze. È per aiutare gli esclusi e gli onesti che legalità e magistratura vanno difese. L’illegalità alimenta la disuguaglianza sociale e viceversa, l’usura e le estorsioni crescono con la crisi economica e l’accrescono, gli immensi costi dell’illegalità sono pagati da ogni cittadino, come ben illustrato dal giudice Gratteri, impegnato nella lotta alla ’ndrangheta. In alcune regioni del Sud mafia e ’ndrangheta si sostituiscono allo Stato, inerte se non corrivo: ci sono «paesi in cui il mafioso è tutto. Amministra la giustizia nel nome della violenza e offre servizi che lo Stato non è in grado di garantire». Il male oltrepassa da tempo il Sud: «Ormai le mafie hanno aggredito ogni lembo del territorio nazionale» (Nicola Gratteri, La Malapianta, Mondadori 2009)
Parlare di rispetto della legge non è dunque avulso. Né parlare di intercettazioni. Se già valesse la legge che le restringe, mai sarebbero stati arrestati tanti malavitosi. Un limite si dovrà stabilire, alla pubblicità data alle intercettazioni concernenti fatti privati, ma oltre tale limite la pubblicità è giusta: anch’essa ci informa e ci fa giudicare meglio. Anche qui, il cittadino informato è la priorità assoluta: se non avessero letto le intercettazioni sui giornali, tanti ignorerebbero le corruttele italiane e quel che esse ci costano.
Legalità e informazione sono vere emergenze, ed è positivo che abbiano occupato il centro della campagna elettorale. Troppo pericoloso ignorarle in tempi di crisi, come si è visto in Grecia. Un regime corrotto, che truccava le cifre, che allontanava lo Stato dai cittadini, che parlava sempre d’altro: così si è scivolati nella quasi bancarotta. È probabile che anche su questo l’Unione europea sarà più vigile. Onestà delle cifre, lotta alla corruzione, restaurazione del senso dello Stato diverranno criteri base della ripresa greca, così come furono criteri non irrilevanti per i paesi corrotti dal comunismo che entrarono nell’Unione, o per l’Italia che nei primi Anni 90, alla vigilia del Trattato di Maastricht e dell’euro, fu invitata da Kohl a frenare il dilagare delle proprie mafie.
da www.lastampa.it