partito democratico, politica italiana

«Non saranno tre anni tranquilli», di Stefano Menichini

L’esito più probabile è un risultato contradditorio, nel quale ognuno possa trovare qualche ragione di soddisfazione. Oltre al meccanismo stesso delle elezioni (con il dato delle regioni conquistate o tenute che si intreccia alle percentuali di lista dei partiti), è il complesso gioco delle aspettative che lunedì consentirà un po’ a tutti di aprire paracaduti, almeno propagandistici.
Per cominciare da casa nostra, il Pd ha la ragionevole speranza di un buon risultato di partito e saluterà come una vittoria la riconferma di almeno due fra Piemonte, Lazio e Puglia, più la Liguria e con un occhio alla Campania. Solo pochi mesi fa (per questo dicevamo: le aspettative contano) tutte queste regioni erano considerate perse.
Le speranze si sono riaperte per un mix fra abilità proprie, clamorosi errori altrui (che però hanno svelato la fragilità di fondo del Pdl) e due incidenti politici significativi: il Pd non ha cercato né Bonino né Vendola, ma ha imparato in corpore vili che la logica maggioritaria rimane più forte delle alchimie proporzionaliste (da cui scaturivano le alleanze con l’Udc) e impone di mettere in campo personalità dotate di carisma a dispetto dei calcoli di partito.
Non è escluso che una rinnovata propensione per il sistema elettorale del Mattarellum discenda anche da queste due lezioni.
Ovviamente anche il centrodestra, giocando sulle aspettative, può sperare di cantare vittoria lunedì.
Qui però i rischi sono evidentemente più alti. Compreso quello di un risultato che mandi definitivamente per aria gli equilibri già precari della maggioranza, e apra una fase di enorme incertezza al posto di quei tre anni di fattiva stabilità che tanti pronosticavano.
A destra la gamma dei rischi possibili è ampia. E parte da un estremo che, per scaramanzia, non vorremmo neanche nominare, e cioè che la razzìa che pareva a portata di mano si riduca al misero bottino di una o due regioni strappate al centrosinistra al Sud.
In questo caso si tratterebbe di un mid-term disastroso per Berlusconi, che anche stavolta ha finito per mettere se stesso come posta in palio.
L’effetto più negativo sarebbe la forte spinta centrifuga, di cui già da tempo si intravedono i segnali e non solo nella vicenda Fini.
Ma anche senza arrivare a tanto, una sola regione come il Lazio ha assunto da sé il valore simbolico del discrimine fra vittoria e sconfitta. Se la Polverini perdesse là dove il caso Marrazzo aveva lasciato solo macerie a sinistra, l’impatto sull’inetto Pdl locale, sull’ambizioso sindaco Alemanno e sugli assetti nazionali sarebbe enorme.
Last but not least c’è il Nord. Cioè il teatro di quello che potrebbe alla fine essere l’unico vero risultato “storico” di queste elezioni. Senza clamore e senza alzare la voce, Bossi potrebbe lunedì rimirare il panorama più prossimo immaginabile a quello della Padania indipendente: regioni controllate direttamente (oltre a comuni e province), peso politico determinante, una forte ipoteca sul sindaco di Milano.
Questo scenario sarebbe solo teoricamente da annoverare fra quelli positivi per il centrodestra. In realtà, l’effetto sarebbe dirompente.
Al Nord, dove si accelererebbe lo spostamento sulla Lega di quegli stessi interessi forti e di quel consenso diffuso che diedero la spinta iniziale al fenomeno Berlusconi. E da Roma in giù, dove la componente antileghista del Pdl darebbe libero sfogo a una insofferenza malamente e a lungo repressa.
È su questo cortocircuito che puntano centristi vecchi e nuovi del sistema politico. La loro scommessa è solo in parte elettorale. Il dato delle urne in senso stretto potrebbe anche non essere positivo per l’Udc, inchiodata alle proprie percentuali tradizionali e magari inserita dappertutto nelle coalizioni perdenti.
L’operazione di Casini (e di Rutelli) è però legata alle dinamiche politiche altrui, più che alle proprie autonome capacità di attrarre consenso.
Qualsiasi risultato che determini instabilità nel centrodestra sarà dunque atteso con favore. Viceversa – e qui c’è il lato debole della scommessa – qualsiasi esito che confermasse le due coalizioni e le lanciasse così come sono verso le Politiche, soffocherebbe sul nascere il progetto neocentrista.
Al quale rimarrebbe una sola via di fuga, non a caso evocata più volte nei giorni scorsi dal Corriere della Sera: addurre come prova della crisi del bipolarismo un eventuale alto astensionismo.
L’ultima incognita di un turno elettorale che ne ha moltissime, mentre appena quattro mesi fa appariva di esito totalmente scontato.

da www.europaquotidiano.it