Caro Professor Lévi-Strauss,
lo so, lei ci ha lasciati qualche mese or sono, ma le scrivo lo stesso, perché forse solo lei, dal suo meritato ritiro riuscirà a leggere lo sconforto. Noi quaggiù, che abbiamo studiato sui suoi libri e su quelli dei molti bravi antropologi culturali che hanno saputo costruire una disciplina in grado di leggere l’umanità con occhi diversi, ci siamo rimasti male. Male a vedere, che quasi un secolo di studi, di dibattiti per cercare di smontare, faticosamente, l’etnocentrismo, che ci accompagna tutti e far comprendere che non esistono culture superiori o inferiori, ma semplicemente diversi modi di organizzare la società e le relazioni umane, non è servito a nulla. O a ben poco se nel 2010, dopo una riforma dei licei definita con modestia dalla sua autrice Mariastella Gelmini «epocale», possiamo leggere nelle indicazioni nazionali dei licei delle Scienze Umane che «tra i temi da affrontare ci sono «le cosiddette culture primitive, il loro carattere prevalentemente magico-sacrale, e il passaggio alle cosiddette culture evolute».
Speravamo che l’aggettivo «primitive» fosse rimasto solo un rigurgito del passato, magari utilizzato in conversazioni al bar, ma non che finisse in un testo governativo. È vero, hanno aggiunto un «cosiddette» per addolcire un po’, ma si potevano trovare ben altri modi o semplicemente si poteva parlare di culture e basta. Certo questo avrebbe posto sullo stesso piano noi e gli altri e forse a qualche leghista o filo-leghista zelante questo non sarebbe piaciuto. E poi come giustificare il «passaggio alle cosiddette culture evolute»? Nelle pagine successive, abbandonata la prospettiva antropologica, infatti di culture non si parla più, ma solo di civiltà. Ça va sans dire che non si parla più di Africa, Oceania, Asia, ma della luminosa Europa. Loro, i primitivi hanno la cultura, noi la civiltà.
Le hanno anche fatto un torto, professore: tra le letture consigliate hanno indicato proprio un suo libro, Tristi Tropici, di cui sinceramente ricordo le minuziose descrizioni delle pitture facciali dei Caduveo, le raffinate analisi sul loro concetto di simmetria, l’attenzione per la complessità dei sistemi simbolici e dei meccanismi narrativi delle popolazioni da lei incontrate. Ricordo il suo, talvolta persino pedante, disgusto nei confronti del passaggio alle «culture evolute».
Sono bazzeccole, forse, ma rivelano come minimo scarsa attenzione al linguaggio. Perché se non è semplice sciatteria, allora è grave. Significa che tutto lo sforzo compiuto per dimostrare che la maggior parte delle dicotomie basate sul binomio noi/loro, sono frutto di una nostra costruzione è stato vano. Inutile aver relegato le teorie evoluzioniste nei libri di storia del pensiero antropologiche, come reperti di archeologia di un pensiero che speravamo non potesse più essere condiviso. Inutile aver tentato di spiegare come quello del progresso e dello sviluppo siano dei miti occidentali, che stanno alla nostra società esattamente come i miti fondatori stanno a quelle società «cosiddette primitive». Ma noi non pensiamo siano miti, perché noi abbiamo la storia, noi abbiamo l’innovazione e loro la tradizione. Sono indietro nel tempo, nella corsa al progresso, per questo si parla di passaggio alle culture evolute. Passaggio inevitabile, sembrerebbe, nella mente degli estensori del testo, altrimenti ci avrebbero aggiunto almeno un «eventuale» o un «possibile».
«Il barbaro è anzitutto l’uomo che crede nella barbarie». Sono parole sue, professore, che dire? Ci può consolare il fatto che ci sono migliaia di bravi insegnanti, che a dispetto di un trattamento economico da terzo mondo e delle continue angherie esercitate da certi ministri sulla scuola pubblica, sapranno andare ben oltre le intenzioni di Gelmini & Co., sapranno spiegare quanto sia complessa la cultura umana e come le sue differenti espressioni siano anche in qualche modo connesse tra di loro; come si trovino sistemi di pensiero quanto mai raffinati anche tra quelle società cosiddette primitive; che le culture sono cantieri sempre aperti, in continuo movimento, in cui si monta e si smonta, utilizzando anche pezzi che vengono da fuori.
No professore, non ho scordato quella frase, quella relativa al «carattere prevalentemente magico-sacrale», è solo che mi ha dato non poco da pensare. Certo, parole come queste potrebbero far pensare a società sprofondate nelle nebbie di credenze e superstizioni irrazionali, a individui succubi della magia, che si muovono impauriti, temendo lo scatenarsi delle ire di maghi, streghe e divinità varie.
Eppure sono arrivato persino a prendere in considerazione che questo fosse un segno di riconoscimento delle culture altre. Le scrivo da un paese dove a pochi giorni dalle elezioni i più alti rappresentanti del sacro, intervengono per dire chi votare; dove il capo del governo, similmente ai re divini del passato, si definisce «unto del Signore» e si considera un taumaturgo (ha detto che sconfiggerà il cancro); dove la gente spende migliaia di euro in lotterie e gli oroscopi sono le pagine più lette dei giornali.
No, no non abito in Burkina Faso, ma in un paese che fa parte del G8. Mi scusi se l’ho disturbata professore, ci perdoni.
dal Manifesto