E se un giorno di questi i ricercatori delle università italiane incrociassero le braccia, non in assoluto, ma decidendo semplicemente di sospendere la didattica? Non è un’ipotesi peregrina, ma sarebbe un disastro. Perché i ricercatori sono all’incirca il 40 per cento del corpo docente delle università italiane. Corpo docente, sì, perché tengono corsi, tanti corsi, spesso a costo zero per l’università, anche se percepiscono uno stipendio decisamente inferiore a quello degli associati (o se preferite “professori di seconda fascia”).
In teoria, non sarebbe il loro mestiere. Eppure si fanno carico anche della didattica. Quando gli ho chiesto quanto si percepisce per un corso (che non comporta solo le ore di lezione, ma anche la preparazione e i relativi esami), un caro amico mi ha risposto così: “Non c’è una “tariffa” fissa, perché dipende solo da quanti soldi ci sono in cassa. Io ad esempio faccio un corso (60 ore) per 600 euro e altri due (120 ore) gratuiti. Con annessi esami, ovviamente. La regola dalle mie parti è che un ricercatore prima si fa un corso gratuito, e poi se ci sono soldi e ne fa altri può prendere qualche briciola. Altrimenti zero.
Il punto è che quasi tutti, come faccio io, accettiamo di tenere corsi per puro spirito di servizio, perché non c’è nessun altro che potrebbe farli. Di fatto molti corsi di laurea letteralmente non starebbero in piedi se non ci fosse la didattica dei ricercatori, che non è neanche prevista dalla legge”.
Oltre a questo stato di cose, che non esiterei a definire una presa in giro, adesso ci si mette il DDL Gelmini sulla riforma accademica. Che si aggiunge alla legge Moratti (230/2005) secondo la quale il ruolo degli attuali ricercatori universitari andrebbe messo ad esaurimento entro il 2013. Il DDL Gelmini, invece, già approvato in prima lettura dal Governo nei giorni scorsi, favorirebbe l’ingresso in ruolo delle nuove figure dei ricercatori a tempo determinato rispetto ai ricercatori a tempo indeterminato di oggi. Che, per chi non ne fosse al corrente, di solito non sono esattamente dei ragazzini alle prime armi. Nel 2006 l’età media dei ricercatori italiani (oggi circa 24.000) era di 45 anni, e oggi – dato lo scarso turnover – è ulteriormente aumentata.
Ne parlo solo dopo molti mesi dal varo, ora che siamo in fase di approvazione, ma a me la riforma Gelmini sembra un incredibile impiastro, destinato a peggiorare ulteriormente lo stato dell’università italiana. Invoca merito ed efficienza solo per giustificare ulteriori tagli ai finanziamenti, ma anche merito ed efficienza sono visti solo strumentalmente ai bilanci, non in relazione alla qualità (o solo marginalmente).
E nel caso specifico dei ricercatori – esclusi anche da tutte le commissioni di concorso – potrebbe segnare una nuova tappa di destabilizzazione del sistema, creando un’anomalia diversa ma non meno dannosa della 382/1980, che ne istituiva il ruolo, chiarendo decisamente che ai ricercatori non potevano essere conferiti incarichi di insegnamento (art. 1, comma 5).
Eppure questa riforma trova un deciso sostegno presso molti autorevoli commentatori. Di sicuro ha trovato una fonte di ispirazione nell’appassionato libro di Roberto Perotti L’università truccata, che metteva impietosamente a nudo il degrado del sistema universitario italiano. Salvo non essere perfettamente corretto nelle analisi. Molto meglio, se posso permettermi un consiglio di lettura I ricercatori non crescono sugli alberi, di Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi, due giovani ricercatori universitari che leggono in modo meno parziale e più profondo i mali dell’università, provando a vedere soluzioni intelligenti.
Ma la riforma Gelmini gode anche di altre “buone recensioni”, non ultime quelle di Francesco Giavazzi – forte sostenitore della riforma dell’Università, che alcuni chiamano, in giro per il web, Giavazzi-Gelmini, tanto gli è estranea – sul “Corriere della Sera”, e di Luigi Zingales sull’Espresso.
Possibile che le critiche più feroci all’università pubblica vengano tutte, o quasi, da ambienti vicini o interni a una celebre università privata? “A pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”. Le fonti la attribuiscono a Giulio Andreotti.
P.S. Per fortuna, però, ai ricercatori non è passato il buonumore…
* Direttore de Le Scienze e Mente e cervello
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