Dall’abuso al “sopruso”. Dalle regole violate alle “violenze subite”. La vera “lezione” che il presidente del Consiglio ha impartito all’Italia democratica (e non certo alla inesistente “sinistra sovietica”) è stata esattamente questa: l’ennesima, rancorosa manipolazione dei fatti, seguita dalla solita, clamorosa inversione dei ruoli. Del disastroso pastrocchio combinato sulle liste elettorali non sono “colpevoli” i dilettanti allo sbaraglio del Pdl che hanno presentato fuori tempo massimo documenti taroccati e incompleti, ma i radicali tafferuglisti e i giudici comunisti che li hanno ostacolati.
Del pericoloso pasticciaccio deflagrato sul decreto legge di sanatoria non deve rispondere il governo che l’ha varato, ma i legulei “formalisti” del Tar che l’hanno ignorato, i parrucconi costituzionalisti che l’hanno bocciato e i bugiardi giornalisti che l’hanno criticato. Ancora una volta, come succede dal 1994 ad oggi, lo “statista” Berlusconi evita accuratamente di assumersi le sue responsabilità di fronte al Paese. La sua conferenza stampa riassume ed amplifica la strategia della manipolazione politica e semantica sulla quale si fonda l’intero fenomeno berlusconiano: schismogenesi (provocazione del nemico) e mitopoiesi (idealizzazione di sé).
Non solo il premier non chiede scusa agli elettori per le cose che ha fatto, ma accusa gli avversari per cose che non hanno fatto. Così, nel rituale gioco di specchi in cui l’apparenza si sostituisce alla realtà e la ragione si sovrappone ai torti, il Cavaliere celebra di nuovo la sua magica metamorfosi: il vero carnefice si trasforma nella finta vittima, il persecutore autoritario si tramuta nel perseguitato legalitario. L’importante è mischiare le carte, e confondere l’opinione pubblica. Nella logica berlusconiana lo Stato di diritto è un inutile intralcio: molto meglio lo stato di confusione.
Declinata in termini pratici, la sortita del premier è un indice di oggettiva difficoltà. Stavolta alla sua comprovata “arte della contraffazione” manca un elemento essenziale: l’inverificabilità degli eventi, teorizzata a suo tempo da Karl Popper. Nel caos delle liste, per sventura del Cavaliere, gli eventi sono verificabili. A dispetto delle nove, puntigliose cartelle con le quali ha ricostruito la sua originalissima “versione dei fatti” (che ovviamente scagiona gli eroici “militi azzurri” e naturalmente condanna la “gazzarra radicale”) stanno due documenti ufficiali. Le motivazioni con le quali il Tribunale amministrativo regionale ha rigettato il ricorso del
Pdl nel Lazio, e i verbali redatti dai Carabinieri del Comando di Roma. Basta leggerli, per conoscere la verità.
Non è vero che i responsabili del partito di maggioranza hanno depositato la documentazione “entro le ore 12 del 27 febbraio 2010”. Non solo la famosa “scatola rossa” con le firme è stata “riscontrata” solo alle ore 18 e 30. Ma all’interno di quel vero e proprio “pacco”, come scrive il Tar, “non erano presenti i documenti necessari prescritti dalla legge”. Né “l’atto principale della dichiarazione di presentazione della lista provinciale dei candidati del Pdl, né la dichiarazione di accettazione della candidatura da parte di ciascun candidato, né la dichiarazione di collegamento della lista provinciale con una delle liste regionali, né la copia di un’analoga dichiarazione resa dai delegati alla presentazione della lista regionale, né i certificati elettorali dei candidati, né il modello del contrassegno della lista provinciale, né l’indicazione di due delegati autorizzati a designare i rappresentanti della lista…”.
E così via, una manchevolezza dietro l’altra. “Formalismo giudiziario”? “Giurisdizionalismo che prevale sulla democrazia”, come gridava il Foglio qualche giorno fa? Può darsi. Ma queste sono le regole. E la democrazia vive di regole. Si possono non rispettare, ma poi se ne pagano le conseguenze. Quello che certamente non si può fare (e che invece il premier ha fatto) è negare, contro l’evidenza, la propria negligenza. Peggio ancora, gridare a propria volta alla “violazione della legge”, alla “penalizzazione ingiusta”, addirittura al “sopruso violento”. E infine puntare il dito contro soggetti terzi, che avrebbero impedito il regolare espletamento di un diritto democratico: se il j’accuse ai radicali fosse fondato, il premier dovrebbe come minimo sporgere una denuncia penale contro i presunti “sabotatori”. I presupposti, se l’accusa fosse vera, ci sarebbero tutti. Perché non lo fa? Forse perché sta mentendo: è il minimo che si possa pensare.
Letta in chiave politica, la sceneggiata di Via dell’Umiltà è un segnale di oggettiva debolezza. La reazione livida del presidente del Consiglio contro il free-lance che fa domande scomode, sommata all’aggressione fisica di cui si è reso protagonista il ministro La Russa, tradiscono un evidente stato di tensione. Il presidente del Consiglio si muove su un terreno non suo. La battaglia campale combattuta sulle regole non gli appartiene, la campagna elettorale giocata sulle carte bollate non gli si addice. Tra il malcelato nervosismo scaricato contro il cronista “villano e spettinato” e il malmostoso vittimismo riversato contro la “sinistra antidemocratica”, lui stesso deve ammettere che “i cittadini sono stanchi” di queste diatribe. È un altro modo per riconoscere in pubblico ciò che ammette in privato: i sondaggi vanno male. Spera nel controricorso al Consiglio di Stato, ma annuncia comunque che il Pdl è pronto fin d’ora a “gettare il cuore oltre l’ostacolo”, e a tuffarsi armi e bagagli nella contesa sulle regionali. Di più: con un annuncio da capo fazione, più che da capo di governo, chiama il suo popolo in piazza per il prossimo 20 marzo. In questi slanci estremi e prossimi all’arditismo, tipici dell’uomo di Arcore che non sa essere uomo di Stato, si coglie il tentativo di rispondere all’appello formulato a più voci sulla stampa “cognata”: quello di lasciar perdere i cavilli della procedura e di rimettersi in sella ai cavalli della politica.
È una scelta obbligata, ma gravemente tardiva. Comunque vada il voto del 28 marzo, il presidente del Consiglio che abbiamo visto ieri non appare più in grado (posto che lo sia mai stato) di riprendere il cammino delle riforme necessarie, e di riportare il Paese su un sentiero di crescita economica, di equità fiscale e di modernizzazione sociale. L’intera politica berlusconiana, ormai, si distribuisce e si esaurisce in pochi, nevrili sussulti emergenziali: esibizioni strumentali su urgenze di scala nazionale (i rifiuti, il terremoto) e forzature parlamentari su esigenze di tipo personale (processo breve, legittimo impedimento). Per il resto, da mesi l’azione di governo è svilita, svuotata e votata alla pura sopravvivenza. Immaginare altri tre anni così, per un Paese sfibrato come l’Italia, fa venire i brividi. Ha detto bene Bersani, due giorni fa, all’assemblea dei radicali: Berlusconi è ancora troppo forte per essere finito, ma è ormai troppo sfinito per essere forte. Giustissimo. Ci vorrebbe un’alternativa seria e credibile a questa rovinosa legislatura di galleggiamento. Toccherebbe al Pd costruirla, se solo ne fosse capace.
La Repubblica 11.03.10